Il viaggio più avventuroso é quello che
facciamo alla scoperta di noi stessi.
facciamo alla scoperta di noi stessi.
vorrei condividere con voi questo bellissimo scritto del mio
carissimo amico viaggiatore Nuccio
Guarnera. L’inizio di un lungo
vagabondare per le vie del mondo per scoprire e esplorare la propria anima.
Anni gloriosi………….quegli anni sessanta.
Scoppiavo di vitalità e di sogni.
Non riuscivo a non immaginarmi senza lo zaino sulle spalle
mentre vagabondavo per il mondo.
Non vorrei ritornare indietro per rivivere quegli
anni…..anche perché è impossibile.
Vorrei solamente continuare ad “esistere” con lo stesso
Spirito di allora.
L’opuscolo narra di una mia avventura di vagabondaggio tra i
barboni e i beatnik nella Roma dell’estate del 1968.
Ho ripreso un mio vecchio libro, “Turista vagabondo”, scritto
nel giugno del 1981 dove trattavo già di quest’avventura. L’ho rielaborato,
ovviamente ampliando gli stessi argomenti di allora alla luce delle mie nuove
esperienze, seguendo passo passo gli eventi e le sensazioni raccontate sul
libro stesso.
Le varie poesie, evidenziate in nero, in parte sono rimaste
integrali così come le avevo scritte nell’81, altre invece, mi sono esplose
dentro durante la rivisitazione del libro.
Lo propongo con gioia e con la consapevolezza di condividere
con le persone che lo leggeranno l’Amore per la vita e per la Libertà.
Nuccio
Guarnera –
29 marzo 2009
TURISTA VAGABONDO
Appunti su una esperienza di vagabondaggio vissuta
nella Roma del ‘68.
Nel
ricordo di tutti i miei anni trascorsi
sulle strade di mezzo mondo una esperienza, forse la più intensa e la
meno razionale che abbia vissuto da quel luglio agosto del ’68 ad oggi, non si
è mai persa tra i passaggi veloci del tempo. Dopo tanti anni, ancora oggi, la
ricordo con grande emozione e nessuna immagine mi si è cancellata dalla mente e
tanto meno dal cuore.
Quell’avventura
è ancora presente dentro di me. Mi ha segnato profondamente.
Ricordo
che avevo appena finito di dare gli esami di riparazione per una classe del
superiore nel fantastico collegio di Santa Agata di Militello, ed avevo tanta
voglia in corpo di viaggiare che avrei spezzato qualunque catena in quel
momento mi avesse trattenuto.
Dipendeva
tutto da me.
I
miei genitori, e tutti i legami paesani erano lontani. Potevo finalmente
decidere da solo se imboccare la strada della libertà o rimanere avvinghiato
alle sicurezze di un piccolo comune del profondo sud.
Anche
se ero fisicamente lontano dal paese, le sue catene sociali esercitavano una
grande pressione sul mio desiderio di libertà. Era impensabile in quegli anni,
specialmente in Sicilia, esprimere liberamente i propri sogni.
Quella
volta fu una grande vittoria.
Un
vero distacco.
Quel
giorno un profondo desiderio represso stava prendendo consistenza iniziando a
camminare da solo verso la libertà.
Salii
sul primo treno che correva verso Messina dilapidando quei pochi spiccioli che
ancora avevo in tasca. Allora preferivo dormire da amici e mangiare pochissimo
pur di non spendere le diecimila lire che mio padre mi aveva dato. In futuro
sicuramente mi sarebbero serviti.
Mi
consideravo fortunato. Stavo volando verso il mio sogno.
Il
vento rinfrescante di luglio mentre mi sporgevo dal finestrino, sul treno in
corsa, mi proiettava nel meraviglioso mondo di Kerouac. Le estenuanti corse
sulle strade americane diventavano
lunghi spostamenti dentro sé stessi, dove la meta si allontanava continuamente.
Volevo andare via, arrivare, conquistare subito il traguardo e poi………
ringraziarmi, ammirarmi per quello che avevo fatto.
Non
riuscivo a pensare ad altro.
La
spinta interiore che mi scuoteva il corpo e la mente era incontenibile. Dovevo
per forza andare a Roma, vivere tra i beatnik sotto i ponti lungo il Tevere e
bivaccare sulla scalinata di Piazza di Spagna.
Già
nel 1965 avevo avuto i primi rapporti con questi personaggi.
Mi
trovavo a piazza Duomo a Catania dentro un bar e proprio accanto a me vi erano
due individui coloratissimi ed estrosissimi. Li guardavo ammirato e
incuriosito. Mi avvicinai e chiesi chi fossero. Perché vestivano in quel modo e
come mai si trovavano a Catania. Ebbi delle risposte “affascinanti”. Mi dissero
che viaggiavano in autostop e si sarebbero fermati qualche giorno in città.
Colsi l’occasione al volo e li invitai nel nostro club, “the beat young”, che
proprio in quei giorni si era imposto alla bigotta e conservatrice mentalità
del nostro piccolo paese.
Spiegai
come fare per arrivare in paese e il giorno dopo, regolarmente in autostop, ce
li siamo visti spuntare nella piazza centrale con gli zaini sulle spalle e
l’immancabile sacco a pelo legato. Mi trovavo assieme agli altri al club e
mentre parlavo dell’incontro, ce li siamo visti spuntare davanti la porta.
Il
club era addobbato con poster dei grandi cantanti rock del momento e
soprattutto, per manifestare apertamente il nostro desiderio di essere diversi,
al tetto avevamo attaccato una pelle bianca di pecora.
Meraviglia!!
La
loro presenza in paese suscitò le ire dei benpensanti e dei conservatori più
accesi, ma principalmente furono le
prediche violente dei nostri genitori a scandire il forte dissenso che si era
levato in paese.
“Li
dovete assolutamente mandare via, sono sporchi, hanno i capelli lunghi, sono vagabondi,
accattoni e non sono degni di rimanere in paese”. La reazione ufficiale del
paese fu quella di mantenere un certo decoro e quindi di mandare via chi sporca
la falsa morale imperante in quegli anni.
Malgrado
tutto li ospitammo per una notte nel club.
Quel
giorno la mia sofferenza fu incolmabile.
Nel
silenzio della mia stanza piansi moltissimo, non concepivo l’odio e la violenza
scagliateci addosso. Ricordo l’infamia
con la quale la moralità conservatrice criticò quell’evento. Avevamo tutta la
piazza contro, specialmente la “buona”
gente che contava ci si era sinuosamente scagliata addosso. Purtroppo, in prima
linea, vi erano i nostri genitori che, pur di non contrastare l’ufficialità
borghese e bigotta, conducevano una serrata battaglia contro di noi.
La
“bella” società esige asservimento completo alle loro regole e, quando qualcuno
tenta di sporgersi oltre determinati precetti, usa qualunque mezzo per incutere
paura e rispetto. I nostri genitori, inconsapevolmente, erano armi sciocche e
sincere da usare per simili scopi.
Nel
mio intimo, mi ricordo, giurai eterno Amore per questa vita e per questo modo
di viaggiare. Ancora oggi, 43 anni dopo, continuo a spostarmi per il mondo
usando essenzialmente i piedi e i mezzi locali con i quali si muove la gente
del luogo.
Negli
anni la loro immagine si è diluita, però ricordo che per tanto tempo li ho
ringraziati. Grazie a loro due il “vagabondo” che mi vive dentro non si è mai
fatto rinchiudere dai paletti sociali.
Ci
siamo attratti a vicenda. Avevo bisogno di quello stimolo per risvegliare la
mia vera natura. E’ stato un vero miracolo.
Partirono
la mattina dopo in autostop scomparendo lungo le strade del mondo.
Mentre
il treno scivolava sulle rotaie pensavo alle sicurezze che prometteva la nostra
società. Non prevedeva ne estremismi ne,
quantomeno, atti di contestazione fuorvianti. Era tutto così programmato,
storicamente consolidato, che il solo manifestare il proprio dissenso verso le
regole del momento, o eccellere in diversità, comportava biasimi castranti.
Quel
giorno la frenesia interiore che avevo nell’andare via, lontano e da solo,
verso la libertà, era arrivata al suo culmine. Esplose appena mi trovai solo,
in un paese lontano, con qualche soldo in tasca e libero da tutti gli impegni
scolastici.
Fu
così che imboccai la strada della libertà……..salendo su quel treno che mi
svuotò di colpo delle tante ansie accumulate.
Messina
era la città più a nord del sud. Per noi ragazzi era una metropoli dalla quale
partivano tutte le nostre speranze. La sua esistenza per noi giovani allora
rappresentava l’incontro di due mondi dove le speranze represse prendevano il
volo verso la sua realizzazione.
Messina
mi sembrò accogliente come non mai.
Ebbi
l’accortezza di disperdere in un sontuoso pasto e in una stanza da letto le
ultime risorse rimaste…………………E VIA….via verso la libertà.
Mi
sentivo come un iniziato ad una nuova vita, proiettato verso un nuovo mondo,
verso il nord, verso la speranza di un domani migliore, più libero.
Ero
slegato.
Mentre
il vagabondo prendeva il sopravvento, la paura scompariva. Quella paura dovuta
al mio balbettare, alla mia fragilità, alla mancanza di denaro, alla mia poca
esperienza, avrebbe preso il volo perché cacciata via dalle fantastiche
esperienze future che avrei vissuto lungo “la Strada”.
La
Conoscenza mi sarebbe entrata lentamente dentro a sublimare anche il minimo
imprevisto.
La
locanda nella quale quella prima notte dormii stava proprio a ridosso della
stazione dei treni. I rumori prodotti dai camion che si spostavano verso il
nord mi davano tanta speranza…..sicuramente domani, pensavo, qualcuno di essi
mi avrebbe preso su e portato verso nord………………..in effetti fu proprio così.
Quella
notte non presi sonno. Lo stridere dei treni sulle rotaie e il rombare possente
dei motori dei grossi TIR mi rumoreggiò nella mente. Non era l’unico rumore che
mi urlava dentro, vi era anche l’attesa del domani ad inquietarmi.
Cosa
sarebbe successo!
La prima volta sulla strada da solo!
La
notte prima di una partenza non riesco a dormire. Dopo 40 anni, 2008, dopo
innumerevoli viaggi, la notte che
precede il viaggio entro puntualmente in paranoia. L’ansia di volare via,
l’angoscia di affrontare il primo impatto con la nuova meta, il pensiero di
abbandonare il “conosciuto confortante” per un ignoto insicuro, la frenesia di
emozionarmi nuovamente di fronte alle visioni offerte dalla Natura………non mi
fanno chiudere gli occhi.
Dopo
l’ultima colazione normale, consumata fugacemente in un bar, mi avviai verso il
traghetto. Ero certo che avrei trovato qualche passaggio su di un mezzo che
saliva verso nord. Chiesi con timidezza, forzando la mia innata ritrosia,
chiesi con insistenza, presentandomi come un bravo ragazzo, ancora vestito
bene, lindo, olezzante dei recenti esami che avevo sostenuto pochi giorni
prima…..ma nulla da fare. Anche dopo, sulla strada, per ore…..non
vi è stato nulla fare. Le vetture mi sfrecciavano davanti incuranti della mia
presenza.
Sembravo
uno studente pendolare che per risparmiare qualcosa sceglie di fare l’autostop.
Non avevo né borsa né tanto meno portavo lo zaino “incriminato”……..eppure
nessuno si fermava. A quell’epoca non portavo ancora la barba, o per lo meno,
mi alternavo tra pizzo alla Trotskiy, baffi alla Antonie e barba alla Bakunin,
quel giorno però, mi ricordo, ero senza peli in viso perché provenivo da un
periodo di esami quindi non sembravo un vagabondo squinternato o sporco da
sembrare poco rassicurante.
Sembravo
uno di loro, talmente normale da……….non accettarmi nemmeno io.
Evidentemente,
pensavo, l’essenza del vagabondo che era in me mi zampillava da tutti i pori e
nessuno voleva prendermi in macchina. Erano le mie movenze, il modo disinvolto
con il quale chiedevo passaggi, non so proprio cosa dire, però , mi ricordo che
per diverse ore stetti col pollice rivolto verso il nord…..e non vi fu nulla
da fare.
Sapevo
delle difficoltà che avevano incontrato tanti autostoppisti in quel tratto di
strada, ero già pronto, però la speranza di non appartenere alla schiera di
quegli sfortunati teneva alto il mio morale.
Non
esitai nemmeno un momento, anzi mi deliziavo nel guardare i visi della gente
stipati sulle macchine ed ingaggiavo sommesse scommesse con me stesso cercando
di indovinare chi si sarebbe fermato per primo. Negli anni identificai quali tipo di macchine si
fermavano con maggior facilità e quali mi sfrecciavano accanto lasciandomi col
dito alzato ad inghiottire la loro scia di fumo.
La
strada stava iniziando ad istruirmi sul giusto modo di vivere la vita.
Si
circoscriveva o si schiudeva in relazione al mio stato d’animo.
Quando
chiedevo con autorità un passaggio, ostentando la mia Dignità, le macchine,
come se si sentissero attratte, si
fermavano e mi prendevano su, mentre invece quando mi mostravo più sottomesso,
più indeciso, mi saettavano davanti con freddezza come se volessero punirmi
della mia timidezza nell’alzare il pollice.
La
strada sembrava un arena dove viene premiato sempre il più furbo e il più
forte.
La
fortuna non si fece attendere a lungo, difatti si fermò un camion di colore
rosso, di piccole dimensioni, che mi prese su per depositarmi nel primo
pomeriggio al bivio per Sapri. Un lungo spostamento in posizione privilegiata.
Dal
finestrino ammiravo le immagini dei monti calabresi in lontananza, la fitta
vegetazione ne contornava le altezze e le riconduceva ad un semplice ammasso di
vegetazione impenetrabile. Risalimmo lungo la costa, allora l’autostrada era
inesistente quindi l’unica via percorribile era il lungo mare.
La
frenesia del viaggiatore incantato non tardò ad arrivare.
Guardavo
sempre avanti, immaginandomi già proiettato nel dopo. Indietro non riuscivo a
guardare, eppure i motivi per farlo erano tanti. Vi erano i miei genitori
inconsapevoli di questa mia avventura, vi erano i vari affetti, tra i quali vi
era una ragazzina meravigliosa che non riuscivo assolutamente ad
allontanarla dalla mente e dal cuore, vi
era una certa sicurezza che mi dondolava in un afflato rilassante……..con tutto
ciò ho deciso di andare via. Ho preferito esaudire l’ansia del partire anziché
abbrutirmi tra quei soliti concetti del vivere sicuro e da borghese.
Allora
l’autostrada iniziava ad Eboli. La civiltà del Cristo di Levi sembrava finire
veramente lì, il resto……..tutto vuoto. Strade che si inerpicavano, in soli
pochi metri, ad altezze da brivido, che costeggiavano strapiombi orribili dal
fondo buio dove mi vedevo sfracellato in uno di questi precipizi.
Ebbi
tanta paura, cercai di pregare con insistenza imprimendo un movimento istintivo
alle mie labbra. L’autista, incurante di questa mia tensione, suonava
all’impazzata per avvertire del suo arrivo le tante donne che aveva sparse lungo la strada. MI annunciava in tempo da
quale finestra si sarebbe mostrata la prossima femmina…..ed era vero.
Negli
anni aveva intrecciato rapporti con l’ambiente e l’ambiente stesso lo ripagava
con sorrisi e riconoscenze appena riappariva con il suo camion sulla strada.
Era
molto spericolato, la paura la allontanava squillando assieme al clacson il suo
amore per la vita.
Mentre
Lui, mi ricordo, inconsciamente abbordava le curve cantando e suonando, io mi
annegavo nella mia adrenalina. Fumava tantissimo ed ogni tanto mi regalava un
po’ di fumo per farmi stare all’erta.
Mi
scaricò nel primo pomeriggio al bivio per Sapri.
In
poco tempo trovai il passaggio definitivo che mi condusse fino a Roma.
Era
un controllore della BP, difatti si fermava in ogni rifornimento di benzina per
controllarne l’efficienza. Un passaggio veramente da privilegiato. Mangiai a
sbafo per tutto il tragitto e in più venivo rispettato come fossi un aiutante
dell’ispettore.
Spesse
volte capita durante l’autostop di avere colpi di fortuna inaspettati. Si viene
rifocillati con grande rispetto, a volte si raggranella persino un po’ di
denaro e qualche dormita in letti comodi. Per i più fortunati a volte può
capitare anche la bellezza di coccolarsi accanto ad un bel corpo di donna e
trascorrere ore meravigliose………ma il
vagabondo, dopo un po’, non vede l’ora di ripartire per rimettersi sulla
strada, da solo, con sulle spalle l’immancabile zaino corredato di sacco a
pelo……………….
Quel senso di libertà che risveglia il
camminare sulla Strada, nessun altra sensazione è capace di accenderlo.
Quel
lungo passaggio mi diede una grande speranza.
Scesi
fin davanti la stazione Termini.
Era
già notte e la città si popolava di corpi disfatti e arrugginiti per il lungo
vagabondare. Era circondata da mendicanti di mestiere e da accattoni
occasionali. Ognuno cercava di trovare il proprio angolo dove depositarsi per
quelle poche ore di buio che ancora rimanevano.
Una
realtà a me sconosciuta mi si schiantava di fronte catapultandomi
improvvisamente nel mondo della povertà più indegna, dove si perde quel minimo
senso di pudore pur di sopravvivere, e di una povertà “rivoluzionaria”, dove
per scelta si decide di vivere povero tra i più poveri.
Non
era il mio caso. Io stavo vivendo per un periodo la mia avventura, e, per
mancanza di denaro, ho deciso di viverla comunque, anche in questo modo.
Scesi
dall’auto preso dal sonno e infreddolito. Barcollando, cercai di orientarmi e
di capirci qualcosa tra tutto quell’apatico fermento che riempiva l’aria
circostante.
File
di fagotti umani erano distesi per terra mentre altri arrivavano
ciondolando perché cacciati fuori dalla
stazione che proprio in quei minuti stava per chiudere. Camminavano come zombi,
portando sotto braccio pezzi di cartone da stendere sul marciapiede prima di
abbandonarsi su. Cercavano un po’ di spazio libero, specialmente coperto da un
tetto per evitare l’umidità e il freddo della notte.
In
silenzio si rannicchiavano sperando nel silenzio della notte per ricavarsi un
po’ di pace. Una schiera di senza tetto, di barboni, di vagabondi, di
malfattori, a quell’ora della notte si rintanava dentro di sé sperando in una
intimità mistica capace di trasportarli in luoghi paradisiaci. Difficile.
Avevano
fame, erano stanchi, abbrutiti, indolenziti, pigri, insensibili al dolore,
denutriti, sporchi……………difficilmente avrebbero potuto sfruttare quella capacità
mentale che ogni uomo ha di costruirsi il proprio sogno.
Il
corpo crollava, la mente lo assecondava e la coscienza dormiva.
In
tanti sceglievano di dormire direttamente sul posto di lavoro. Domani mattina,
senza spostarsi, avrebbero iniziato a mendicare dallo stesso luogo in cui
avevano trascorso la notte.
Una
triste realtà.
Era
quello che mi aspettavo di trovare o speravo in qualche altra realtà?
Chi
lo sa……..l’unica cosa che mi ricordo è il freddo raggelante di quel marciapiede
sul quale mi distesi vinto dal sonno e dalla stanchezza. Non avevo nulla con
me, tanto meno disponevo di pezzi di cartone per attutire la durezza e per
staccarmi dal gelido pavimento.
Non
sentivo alcuna paura. Nessuno avrebbe mai rapinato un nullatenente come me,
quindi mi sentivo sicuro. Non chiusi gli occhi facilmente. La prima notte da
vagabondo a Roma non potevo farla passare in sordina.
Mi
misi ad osservare dalla mia posizione gli altri fagotti umani che cercavano di
rannicchiarsi sempre di più stringendo le gambe ed avvicinando le ginocchia al
viso. Più si rimpicciolivano, più protetti si sentivano. Cercavano di ricavarsi
un attimo di solitudine, ma………………..mancando l’intimità, difficilmente si riesce
a sentirsi liberi.
Tutti
i tuoi movimenti sono controllati, passa sempre qualche curioso che si ferma a
guardare….come dormi, se parli nel sonno, se russi, se dormi con la bocca
aperta….e poi, nella povertà vi è sempre qualcosa da proteggere, forse la vita,
fatto sta che anche in quelle condizioni si ha paura di essere derubati di
qualcosa…..forse della vita o forse dei sogni, non lo so, ma so che in certe
condizioni, l’attaccamento alle piccole cose diventa un ossessione.
Alla
fine ci si addormenta, la stanchezza prende sempre il sopravvento e poi….la
mattina ecco che si riprende, un nuovo itinerario, una nuova speranza, un’altra
notte…altro freddo, altra paura.
Questa
è la vita del vagabondo per mestiere.
L’altro,
quello occasionale, quello “rivoluzionario”, è sempre in fermento. Vuole per
forza stravolgere l’esistente, anche questo mondo vuole innovarlo,
rivoluzionarlo, sindacalizzarlo……….ma è talmente antico, radicato nella società
che difficilmente si può intervenire. Viene da lontano, dalla miseria, dalla
distribuzione sperequata delle risorse sul quale è fondata questa società.
I
poveri del nuovo secolo sono figli dell’emarginazione, delle crisi
esistenziali, del pauperismo galoppante, delle crisi da panico, di forme
depressive e schizofreniche dovute alle vari forme di impotenza…………………
Osservavo
tutto questo mondo e mi vedevo qualche anno prima già a Roma mentre con Pino
andavamo alla ricerca di via Margutta, al Piper, per comprare qualche pantalone alla moda da
indossare in Sicilia per attrarre qualche ragazza.
Stavo
sfidando la società.
Era
la mia prima vera lotta….e mi sentivo un eroe.
Un
ragazzino di appena 19 anni, balbuziente, timido, politicamente spostato più in
la della sinistra, intellettualmente indefinito, stava iniziando la sua
avventura nel mondo e, fortunatamente, oggi lo posso benissimo dire, quella mia
prima notte tra i barboni della stazione Termini condizionò benevolmente tutta
la mia vita futura.
Mi
entrò dentro il “vagabondo” e non smisi mai di farlo.
____________________________________________________________________
Mi svegliai tremando dal freddo. Non
avevo niente con il quale coprirmi. Tutti avevano qualcosa io…..niente.
Possedevo solo poche lire che presto avrei utilizzato per fare una sontuosa
colazione.
Valutai
la situazione e decisi di spostarmi per iniziare da subito e a stomaco pieno
questa nuova avventura. Pensai di premunirmi per la prossima notte cercando
pezzi di cartone, però mi resi subito conto che dovevo trascinarlo per l’intero
giorno con me, tenendomelo stretto fino a notte. Decisi di rinviare tutto alla
sera, per adesso mi volevo immergere in questa grande città calpestandola con
orgoglio e con gioia.
La
mia avventura.
Il
mio andare oltre il consolidato mi ha sempre portato fortuna.
In
tante altre situazioni ho patito il freddo, forse più intenso e più pericoloso,
però come quella prima volta, da solo, spaesato e senza alcun indumento per
coprirmi, mai. Posso dire, però, che mi sentivo colpito da un freddo amico, non
lo sentivo ostile, avvertivo un certo calore nel suo pungermi. Era così
preponderante la mia voglia di evasione che quella notte avrei accettato
qualunque tortura.
In
futuro, in una infinità di situazioni, vissi il freddo con paura ritmando
compulsivamente i denti e battendomi i pugni sul corpo per riscaldarmi. In uno
dei tanti viaggi in Cina addirittura, mi ricordo, usammo delle borse per acqua
calda per riscaldarci tenendole strette
al petto. Più di una volta ho rischiato l’assideramento in Tibet e in Ladhak e
grazie al calore profuso dalla mia Pina, sono uscito sempre indenne. Dormendo
sotto i ponti dell’autostrada, vicino Brema, 1970, con Pino rischiammo
veramente di congelare, e dentro cimiteri austriaci, sulla neve, dentro sacchi
a pelo molto leggeri……..anche quella volta in Mali, di notte, su una jeep
scoperta provammo i brividi del freddo….ci siamo abbracciati, riscaldati, ma
l’aria fredda era tagliente come il fuoco e bruciava al contatto con la nostra
pelle……..
L’ambiente
dei barboni difficilmente si apre. E’ chiuso come chiusi sono i motivi che li
hanno spinti a fare questa scelta. A volte non scelgono, ma sono pressati da
situazioni familiari disastrose e si ritrovano a vivere da reietti in qualche
angolo di strada. Non hanno fiducia in nessuno. Fuggono da soli e soli
rimangono sommersi dalla loro sfiducia verso il mondo.
Questo
ambiente era molto diverso dall’ambiente beatnik che conobbi appena un giorno
dopo. Alla loro chiusura mentale e fisica si opponeva quello dei vagabondi per
scelta rivoluzionaria. Erano quasi tutti vecchi, disfatti, sfiduciati, con
problemi assurdi dietro le spalle, di mancanza di lavoro, di divorzi
disastrosi, mentre gli altri, i miei
idoli, si muovevano per scelta occasionale, momentanea, portavano in sé la
rivoluzione della società, il cambiamento verso un nuovo mondo, erano quasi
tutti giovani, stravaganti, accattoni dignitosi, amanti della vita,
sconoscevano l’odio e la rabbia, contestavano già con la loro presenza……ed
erano liberi, non cercavano la felicità, erano già felici così come erano.
Non
erano attaccati al denaro, al loro piccolo spazio, al pezzo di cartone, mentre
quelli, i barboni coatti, si legavano a quel poco che avevano con violenza,
tenevano dentro tutta la rabbia del mondo perché continuavano ad odiare colui o
colei che li aveva spinti tra le braccia di quella infelice esistenza.
I
Beatnik di Piazza di Spagna li trovai aperti, disposti al gioco e alla gioia.
Accattonavano ma sprizzavano Dignità. Il loro era di tutti, erano grandi
sognatori e spaziavano con la mente senza alcun pregiudizio. Sicuramente
avevano dentro un po’ di rabbia verso questa società, ma difficilmente la
indirizzavano verso singoli individui.
Contestavano
lo stato delle cose, rifiutavano i regimi, negavano le autorità, ripudiavano le
formalità…………………..erano libertari, Anarchici, qualunquisti per scelta,
individualisti positivi, fuori dagli schemi, aldilà di tutto e sensibili alla
sofferenza altrui. In poche parole era il mio mondo.
Da
anni li seguivo con il cuore e con tutto me stesso, leggendoli sui libri,
seguendoli sulle strade americane mentre colonizzavano i piccoli spazi
ignorati. Davano un senso, con la loro presenza, a tutto ciò che l’ufficialità
borghese considerava inutile, improduttivo. Si radunavano in villaggi
abbandonati immaginandosi la vita, occupavano pacificamente angoli di mondo
trascurati e li rendevano vivi, vitali, fucine di libertà.
Era
il mio mondo e, nel mio piccolo, allora, tentai di rendermi simile a loro. Non
feci alcun sforzo per essere accettato……….mi abbandonai semplicemente
mostrandomi così come ero.
Quella
mattina di inzio luglio mi scuotevo dall’angolo dove avevo trascorso la mia
prima notte da vagabondo e mi recai con passi fermi verso la mia meta: Piazza
di Spagna.
Passi
liberi, senza alcun senso, ma indirizzati, risvegliati da un nuovo senso della
vita che stavo per imprimere alla mia coscienza.
Verso
la libertà……a visitare i miei idoli che sapevo bivaccati su quella mitica
scalinata.
Persi
un po’ di tempo per guardarmi intorno, chiedere informazioni e sorbire un bel
bicchiere di latte con dentro un bel pezzo di pane.
Una
buona colazione sostiene lo Spirito. Apre la finestra sul mondo con un sorriso
interiore pieno di sicurezza.
Quella
mattina non mi dileguai in discorsi di risparmio, spesi tutto quello che avevo
in piena consapevolezza. Tutto per presentarmi vuoto nella mia piazza. Non
avevo nulla da tenermi stretto per considerarmi più “ricco” degli altri. Non
volevo possedere nulla per scelta…………….volevo essere come loro.
Un
piccolo vagabondo fuggito via dalle proprie sicurezze per contestare “il
conosciuto”.
Mentre
percorrevo le vie per arrivare a Piazza di Spagna, incrociai un corteo di
giovani che contestavano scientificamente la società. Mi accodai istintivamente
per solo pochi metri, tentai di gridare il mio odio seguendo qualche
slogan……………ma non riuscii a tenere a lungo il passo. Mi discostai in silenzio,
lentamente, per guadagnare nuovamente la mia strada.
In
quegli anni la contestazione libertaria, dei Beatnik, esplosa anni addietro da
una richiesta di libertà interiore, esistenziale, stava transitando nella
rivoluzione scientifica, politica, asservita al partito, legata a sistemi
autoritari i quali, si credeva, in tempi passati, sotto la bandiera della
rivoluzione socialista, avevano celebrato la via della lotta rivoluzionaria.
Subito
dopo scaturì l’autunno caldo. Operai e studenti insieme per lottare contro il
declino della Democrazia, per la lotta di classe e per l’immaginazione al
potere. In tanti abbandonammo il sogno di un esistenza libera per dedicarci
anima e corpo al Partito e all’impegno politico.
Militai
per qualche anno in un partito della sinistra spinto dall’emozione
rivoluzionaria e dalle grandi opportunità che mi offriva la vita da
“intellettuale”.
Dentro
un partito se non si è un leader, si rischia di diventare semplici numeri
rimovibili e condizionabili in qualunque
momento. La coscienza politica, la tanto inneggiata coscienza di classe, fa
presto a trasvolare dalla realtà oggettiva ad una visione personale della
realtà………da questo sociale scivolamento sono emersi i nuovi leader politici,
quelli che ancora oggi, giugno2008, detengono il potere e determinano le sorti
dell’intera società.
Tutti
sessantottini, tutti rivoluzionari…….tutti di sinistra.
Quella
volta a Roma non mi sentii coinvolto da quel genere di rivoluzione. Mi interessava marginalmente, mentre ero più
affascinato dal mondo dei vagabondi. Ero più per un tumulto interiore,
psichico, scuotermi dalle fondamenta anziché pensare a certe forme di
apparenza. Non volevo sentirmi un automa che lotta per la Libertà quando ancora dentro non mi sentivo libero.
Volevo
conquistare la mia Libertà, e a quel tempo La idealizzavo solo nel
comportamento dei Beatnik che bivaccavano in tutte le piazze del Mondo.
Era
lì che volevo andare, lì che volevo dirigermi quella mattina e istintivamente
mi staccai dal quel corteo e mi avviai verso Trinità dei Monti.
La
mia timidezza contrastava con il forte clamore esterno che a quei tempi
caratterizzava tutte le grandi città. Un rumore tumultuoso, scientifico,
programmato dai partiti e galoppato da qualche leader acculturato e parolaio.
In
futuro vissi la mia ristretta esperienza universitaria con tutti i crismi del
contestatore aprioristico.
Sempre
contro, tutto sbagliato, mai accondiscendente.
Il
mio era un NO grande quanto il mondo…..solo dopo, tantissimi anni dopo, con
l’avvento del mio Maestro nella mia vita iniziai a balbettare un SI. Prima
piccolo, ristretto, di parte….lentamente un SI più grande, in espansione, un SI
che avvolgeva sempre più realtà….e poi un SI universale, cosmico, amorevole.
SI….SI…..SI….SI…..SI
negli anni lo giaculai come un mantra…….forse sbagliando!!!!
Avevo
sempre sognato di entrare in quella piazza e sedermi in quella scalinata con lo
zaino sulle spalle sporco e fatto di mondo. Vi arrivai invece nudo, senza nulla
in spalla e senza alcuna arroganza. Portavo qualche preconcetto, questo si…..vi
entravo confuso e spaesato, senza l’arroganza del giovane rivoluzionario. Mi
mantenei in disparte, a piccoli sorsi, come se stessi sorbendo un the caldo.
La
Conoscenza è un procedimento, avviene gradatamente man mano che si acquista
consapevolezza della realtà in cui ci si trova. Entra dentro respiro dopo
respiro, si fa assimilare al momento che si è pronti….non prima non dopo.
Così
speravo di conoscere quella Piazza.
Così
desideravo avvicinarmi ai miei “vagabondi”.
Non
attirai l’attenzione di nessuno. Ero talmente piccolo, normale, senza barba
perché l’avevo tagliata qualche giorno prima di sostenere gli esami, maglietta
rossa, scarpe da sostenitore di esami, e pantaloni a zampa di colore avana.
Mi
ricordo perfettamente. Non avevo altro e nulla poteva farmi risaltare agli
occhi attenti della scalinata.
Mi
confusi tra il normale turista e mi accovacciai in un angolo.
Stavo
vivendo il mio sogno sublimandolo nella realtà.
In
paese avevo idealizzato questo mondo e ancora non me ne rendevo conto.
Era
vera la mia avventura quella che stavo vivendo o era sempre il solito sogno,
quello stesso che da tanti anni, puntualmente, mi si presentava quando sentivo
addosso la sofferenza che mi causava il rapporto con il paese?
Spuntavano
barbe di ogni tipo, sacchi a pelo sdruciti e coloratissimi, qualche chitarra e
tante ragazze…..quasi tutte romane, belle, giovani e prorompenti.
Con
passo leggero presi a salire la scalinata.
Sembravo
un intruso quando prende possesso del nuovo ed usa tutti gli accorgimenti.
Intanto, per via degli indumenti che indossavo, non mi sentivo a mio agio.
Volevo strapparmi quella camicia nuova e linda che portavo
addosso…..fortunatamente fu solo per qualche giorno…….volevo infangare le
scarpe che calzavo e sui pantaloni, almeno, volevo scrivere qualche frase che
inneggiava alla libertà.
Qualche
anno prima camminai per diversi mesi con un paio di jeans con su scritto:
“Fatti non foste per vivere come bruti, ma per seguire virtude e conoscenza”.
Un
intruso silenzioso, che osservava senza emettere alcun giudizio.
Sentivo
di appartenere a quel mondo, ma l’apparenza mi rendeva distante. Volevo avere
già la barba lunga, come la tenevo qualche settimana prima, i capelli almeno
sotto il collo e arruffati per sembrare anche esteriormente uno di loro.
Volevo
essere e sembrare un semplice giovane vagabondo siciliano che viveva sotto i
ponti romani il proprio sogno o in qualche angolo della stazione Termini.
Non
avevo portato con me nemmeno la chitarra. Ne possedevo una che per un certo
periodo vi strimpellai su mentre accompagnavo di sghimbescio un piccolo
complessino di paese…..ma nulla di trascendentale. Non ero per niente
bravo.
Stetti
l’intero giorno seduto sulla scalinata ad osservare e senza pensare a mangiare.
Mi
sentivo talmente appagato che non sentii il peso della stanchezza e i morsi
della fame.
In
futuro mi inserii talmente bene nella mentalità e nel costume del beatnik che
diventai un esperto “mendicante” che pur di non interrompere la meravigliosa
avventura, faceva di tutto per racimolare qualche somma di denaro.
Chiedevo
sigarette, soldi per comprare da mangiare e qualche coperta, chiedevo
continuamente l’ora, anche per non perdere il vizio. Il mio balbettare mi
spingeva a trasformare il semplice chiedere in un cantilenante mantra per non
inceppare in qualche sillaba.
Mi
consideravo veramente bravo.
Dal
momento che capii che l’unica risorsa per continuare il mio vagabondaggio era
il denaro…..chiesi e chiesi a più non posso.
In
futuro sfruttai questa pratica in tanti altri viaggi con grande perizia,
specialmente ad Amsterdam, nel ’70, quando affiancai all’accattonaggio la
raccolta di bottiglie in vetro da rivendere al primo centro alimentare.
Da
piazza di Spagna fino ad arrivare all’osteria dove andavo ogni giorno a
mangiare, vi erano solo poche centinaia di metri…ebbene, con disinvoltura,
durante il tragitto, riuscivo a racimolare la giusta somma per un pranzo
decente. Il resto della giornata rimanevo seduto sulla scalinata a pensare, a
guardare e soprattutto a scherzare con le schiere di turisti americani che in
quegli anni, assieme a tanti giapponesi, popolavano le strade di Roma.
Li
smorfiavo con libertà e con gioia. Erano attirati dai mitici barboni di Trinità
dei Monti e accettavano qualsiasi scherzo.
A
volte allungavamo le mani per tastare qualche florido sedere che, ondeggiando
senza alcun ritegno, spigolava dalle nostre parti rendendosi appetitosamente
accessibile.
I
“Diversi” in quegli anni eravamo noi. Il nuovo e lo stravagante, a parte le
opere d’arte, era dettato dal nostro bivaccare in quella Piazza. Eravamo su
tutti i giornali del mondo ed eravamo consapevoli che questa popolarità ci
avrebbe protetti dalle continue retate della polizia.
Tra
di noi giravano tristi storie di scorribande della “forza” che, periodicamente,
con l’odio che le sprizzava dagli occhi e dal cervello, cercava di ripulire la
città dalla nostra presenza. In effetti le veniva difficile riuscire in questa
impresa e si limitava ad intimorire e a rimarcare la propria autorità sul
territorio.
Le
schiere dei vagabondi aumentavano ogni giorno e poi si aggiungevano anche tutti
coloro che per esplicita mancanza di denaro abbandonavano la sacralità della
società ufficiale e si aggiungevano a noi.
La
nostra presenza attirava un variegato mondo di vagabondi, tutti regolarmente
non censiti e liberi da legami con il regime pseudo-democratico che dominava in
quegli anni. Vi era persino il rischio di qualche infiltrato della politica
“rivoluzionaria” che cercava di strumentalizzare la nostra Libertà per il
proprio tornaconto. Appena veniva smascherato, subito lo popolarizzavamo nella
pubblica piazza……e per lui diventava un dramma rimanere.
Trascorsi
così il mio primo giorno in quella Piazza, racchiuso in un mutismo timido,
osservante e invidioso dei miei tanti coloratissimi amati eroi che in quel
momento punteggiavano, di gioia e di libertà, la mia scalinata.
Primo giorno….seconda notte.
Il
freddo della notte precedente mi canticchiava già la sua serenata. Tra poco
avrebbe fatto buio e l’ora tarda mi avrebbe spinto alla ricerca di un luogo
dove dormire. Non trovai di meglio che rientrare alla stazione a piedi sperando
di raccattare lungo la strada qualche lira per riempirmi lo stomaco, dato che
quel giorno non mi ero spostato dalla piazza, e recuperare qualche pezzo di
cartone per coprirmi ed isolarmi durante la notte.
Un vagabondo che cammina!!!
Il suo non è un camminare normale,
scrutatore, agile, saltellante….il suo è il camminare della vita tra i meandri
di una coscienza implosa dentro sé stessa.
Cammina…ma non vede. Vede solamente
quando cerca qualcosa.
Guarda…ma non sente. Sente solamente
quando qualcuno tenta di togliergli la Libertà.
E’ così abituato al silenzio che tutto
gli sembra attutito.
Quando deve fuggire da qualcosa….non
corre. Ciondola ed è già distante.
Quando accattona….non chiede. Usa la
Dignità per ottenere qualcosa.
Quando dorme…non chiude gli occhi. Si
distende e…non sogna.
Guarda col corpo…sogna col cuore…vola
con tutto sé stesso.
Un vagabondo non è umano….è un essere
Divino.
Quel
giorno le sensazioni che provai stando seduto sul luogo dei miei sogni mi
tennero lontano i morsi della fame.
Entrai
alla stazione portando diversi pezzi di cartone, mi consigliarono di comprare
un biglietto Roma-Settebagni per non venire buttato fuori, e mi avviai verso la
sala d’attesa di seconda classe.
E’
l’unico punto di ristoro per un vagabondo.
La
stazione Termini chiudeva all’una di notte, e non vi era altra alternativa che
uscire fuori. Quelle poche ore trascorse al caldo le custodii sul mio corpo
quanto più a lungo possibile. Ero certo che fuori avrei trovato freddo e
solitudine, quindi quel calore lo coccolai dentro di me con grande
gioia………tentavo di circuirlo con le mie moine per non farmi abbandonare. Ne
avevo di bisogno per sentirmi protetto e caldo.
Puntuali
vennero le guardie e ci cacciarono fuori. Con in mano i pezzi squadrati di
cartone uscii e lentamente, con il sonno in gola, mi depositai con tutto me
stesso in un angolo illusoriamente più caldo e meno esposto.
Scricchiolio
di ossa, spostamenti continui per trovare la posizione migliore, sbadigli
condizionati, lampi di luce agli occhi lanciati da qualche curioso occasionale,
lievi colpetti di piedi per sentire la vicinanza dell’altro.
La
paura di rimanere solo, abbandonato da tutti i barboni che dormivano in quel
luogo, non mi lasciava riposare in pace. Ero certo che nessun di quei barboni
sarebbe intervenuto in un momento di pericolo, proprio perché la vita gli aveva
riservato tanta sofferenza da renderli indifferenti alla presenza degli altri,
però il solo sentire la vicinanza di altri accanto a me, mi rassicurava.
Mi
creavo amici immaginari che avrebbero preso le mie difese……..solo così riuscivo
a chiudere gli occhi. Mi raggomitolavo sfruttando il calore del mio stesso
corpo e mi lasciavo andare.
Quella
seconda notte da vagabondo tra i barboni della Stazione Termini di Roma mi
trasportò con la mente agli hobos americani e all’epopea peregrinante che, con
la loro vita, imposero nelle menti e nei sogni di tutti i viandanti del mondo.
Un intera generazione di vagabondi a cantare la Libertà, chi sotto i ponti chi
lungo una linea ferrata, chi attorno ad un bivacco su spiagge bianchissime chi
a strimpellare su una chitarra in qualche piazza storica del vecchio
Continente.
Una
lunga sosta, chiusi nel nostro piccolo mondo, questo era il senso del
vagabondo.
Un
mondo che stava per sparire dietro l’avanzare scientifico della rivoluzione.
Rivoluzioni
giovanili in America e in Europa stavano fagocitando qualunque forma di
indifferenza politica. Tutti per forza dovevamo interessarci della loro
politica se volevamo essere accettati.
Spontaneisti
controrivoluzionari, così ci definivano i realisti della rivoluzione.
Il
viso trasognante del beatnik, quella notte, sulle banchine attorno alla
stazione, preavvertiva già l’avvento di un potere oltremodo enorme che avrebbe
trasformato quelle banchine anarchiche, fucine di aneliti individuali verso la
Libertà, in focolai scientifici dove analizzare strategie di lotta per
abbattere “questo tipo” di Potere statale e, subito dopo…………….rimpiazzarlo con
l’altro Potere, quello “gentilmente imposto” dalla classe operaia finalmente
illuminata.
I
canti mansueti e trasognanti della
contestazione libertaria, stavano per transitare nell’Internazionale
Comunista…….il sogno del vagabondo di un Mondo Libero e senza schemi stava
decadendo nel freddo delirio di uno “Stato comunista diretto e programmato dal
Partito”. L’ideale delle piccole comuni autogestite dove l’Individuo poteva
partecipare direttamente alla costruzione del proprio “sogno”, stava regredendo
nel freddo massificante ideale della costruzione del Partito.
Tutto
perso.
Tutti
i sogni confusi……..miscelati tra cervellotici tesi e antitesi, fusi con
l’irreale “immaginazione al potere”, diluiti tra proletari e borghesi, tra
imperialisti e internazionalisti……………..un guazzabuglio di teorie e prassi
annichilirono quel grande sogno di Libertà che in quegli anni rappresentava
l’epigono del giovane.
Quella
notte, la seconda notte di vagabondaggio vissuta in prima persona, questi
discorsi ancora non occupavano la mia mente.
Tra
poco sarei stato cacciato via da quel luogo, dovevo quindi rintanarmi dentro di
me per non farmi sfuggire l’ultimo calore accumulato. Quei pezzi di cartone che
tenevo stretti sarebbero serviti a poco,
il freddo ne avrebbe oltrepassato la fittizia compattezza………..però
ugualmente lo tenevo stretto, almeno, pensavo,
mi rimaneva la sparuta illusione di coprirmi con qualcosa.
Ritrovai
lo spazio della notte precedente ancora vuoto. Era riscaldato dalla figura di
due vecchietti dalla barba lunga e proprio da loro seppi dell’esistenza
dell’Esercito della Salvezza e di un convento nei pressi di Trinità dei Monti
dove servivano in beneficenza a colazione
e a cena un pasto sontuoso e rinfrescante.
In
futuro, per diverse notti, con Pino fummo ospiti dell’Esercito della Salvezza,
addirittura una notte creammo un po’ di casino perché involontariamente
occupammo un letto già assegnato ad un barbone che mendicava nei dintorni della
stazione. Il capitano della missione si inalberò talmente da indossare la
divisa dell’Esercito per manifestarci la propria autorità e decidere di
buttarci fuori dalla “missione”………….e così fece.
Capii
di non fare alcuna domanda e di aspettare che quel mondo mi si aprisse
spontaneamente.
Vecchietti
saggi, dignitosi, dal viso rilassante e promettente……….per qualche altra notte
mi tennero accanto a loro consigliandomi come muovermi in quel mondo.
I
barboni di Roma mi instillarono furbizia e una certa malizia, armi essenziali
per muoversi in quella Roma del ’68.
L’apertura
del “terzo occhio” avviene sempre quando meno ce lo aspettiamo.
Chi
poteva immaginare che sotto quegli indumenti sudici e sporchi si celavano due
“piccoli” saggi capaci di illuminarmi con perizia sui pericoli della realtà in
cui mi trovavo? Bastava ascoltare con leggera presenza mentale per prendere
l’essenza di quegli insegnamenti e poi ricondurli nella realtà.
Basta
poco per proteggersi.
A
volte perdiamo troppo tempo ad analizzare un messaggio…..intanto l’attimo
fugge e quel messaggio non è più
attuale. Fugge via come fuggono via tutte le paure quando apriamo gli occhi
agli avvertimenti della Coscienza.
Basta
così poco per illuminare il Paradiso che ci vive intorno……….una sparuta Luce
risvegliata da un attimo di consapevolezza.
La
consapevolezza di essere fortunati in un mondo di individui soli.
La stazione apriva alle prime luci
dell’alba. Lentamente i soliti corpi infreddoliti si scrollavano dagli strati
di cartone e cercavano di scuotersi da quei sogni tristi che la notte gli aveva
imposto. Ci stiracchiavamo per sciogliere i grumi fastidiosi che infierivano
sulle nostre ossa e con grande lentezza cercavamo di metterci su.
Per
me era il secondo giorno, per gli altri chissà quanti giorni si erano
accumulati sotto quelle croste di cartone.
In
quegli anni Roma rappresentava la Luce per tutti noi. Era tanto luminosa che i
nostri sogni venivano abbagliati da così tanto bagliore. Noi stessi venivamo
oscurati dalle scintille della città.
Il
sogno di un ragazzo del sud non riusciva a decollare per la troppa luce.
Facilmente si confondeva e non definiva più i contorni…..tutto era così bello,
così grande da sembrare un sogno.
ROMA……caput
mundi.
Per
me era il centro del mondo.
Quella
seconda mattina mi spinsi per inerzia verso Trinità dei Monti. Ne sentivo il
richiamo già appena sveglio e, ancor prima di fare colazione, mi incamminai
verso quel luogo.
Negli
anni futuri ogni volta che partivo per uno dei miei viaggi, mi fermavo un
giorno a Roma per visitare la piazza, quasi come fosse un feticcio da onorare
prima di intraprendere le avventure lungo le vie del mondo.
Quella
mattina mi sentivo spinto, impaziente, fiutavo nell’aria un inquietudine
interiore, bramavo al pensiero che tra poco mi sarei disteso su quella
scalinata….mi sentivo come un detrito della società che tra poco sarebbe rinato
a nuova vita………..
Oh se potessi essere diverso, unico…….
sarei me stesso.
Oh se potessi dare più di quanto non
ho……..
sarei me stesso.
Oh se potessi avere Amore da dare agli
altri………
sarei me stesso.
Oh se potessi sentire i suoni repressi
nel corpo umano…e tirarli fuori…..
sarei me stesso.
Oh se potessi………
(1981)
Erano
arrivati nuovi vagabondi. Quelli di ieri non erano più gli stessi, altri, con
altri zaini e con nuove chitarre, erano appena arrivati. Non sembravano
spaesati….erano di casa. Sentivano il calore delle vibrazioni emanate da tutti
quei vagabondi che ormai da anni bivaccavano nella piazza. Anche se al momento
sembrava vuota, permaneva un concentrato di energia che attirava il simile.
Un vagabondo è ovunque a casa propria.
Nel silenzio percorre le passerelle
delle piazze come una prima donna.
Non recita alcuna parte.
E’ così……perché è bello essere un
vagabondo.
Non
sentivo affatto il bisogno di girare per Roma. Per me il mondo iniziava e
finiva in quella piazza. Era tutto lì, concentrato nelle speranze di tutti noi
e nelle chitarre che, a qualunque ora del giorno, istintivamente ritmavano una
dolce armonia.
Non
eravamo noi a fuggire dalla società, ma era la società ad essere emarginata. Si
era posta aldilà dello steccato che lei stessa aveva innalzato per distinguersi
da noi. Noi eravamo felici di questo e glielo dimostravamo continuamente
intonando i nostri canti e le nostre nenie che parlavano di Libertà.
L’armonia
unisce ed avverte quando è il momento della grande festa dell’Amore.
Chi
si trovava a transitare da quel luogo si sentiva attratto da quel caos
trascendentale. Le schiere di turisti erano avvinti da quel suono a più voci
che si perdeva nell’Unità.
Sembravamo
sirene mentre accalappiano i loro Ulisse.
L’indifferenza
vigile del potere statale sembrava non sentire, ma noi sapevamo che registrava
il pulsare della piazza dalle telecamere poste sui tetti dei palazzi, sapevamo
che assieme a noi qualche infiltrato annotava i nostri movimenti, sapevamo che
prima o poi qualche retata avrebbe invaso di un rumore sconcertante la nostra
piazza, sapevamo tutto questo…..eppure eravamo felici di essere li.
Nessuno può fermare l’armonia che proviene dal cuore.
E’ musica Divina, avvincente,
entusiasmante, limpida……….musica che crea, che sprizza gioia, contatto, che
emana profumo…..che vola.
Non
mi venne difficile inserirmi nel mio mondo. Ormai stavo assumendo l’aspetto
desiderato. Gli indumenti che indossavo perdevano gradatamente la limpidezza
del loro colore naturale, la piazza li stava tingendo di sè e il mio spirito li
stava “appestando” di quell’anelito atavico che gridava LIBERTA’.
Ero
nuovamente li, seduto a bocca aperta ad ammirare la diversità della gente che
mi passava davanti. Anche quel secondo giorno rimasi seduto nel solito gradino
spaziando con gli occhi e spostandomi solo di qualche metro per osservare
qualche frivolezza messa in campo da qualche giovane stanco di non fare nulla.
Quella
sera scelsi di spostarmi assieme al gruppo mentre transumava con tutti i propri
averi verso un altra piazza.
La
solita storia veniva accordata con più chitarre e gridata con una nuova
linfa…..non cercavamo spettatori, desideravamo silenzio, tranquillità e forse
un luogo dove poter dormire al sicuro dalle forze dell’ordine che non ci
lasciavano in pace.
Le vie luminose della Roma turistica
affascinavano la curiosità del viaggiatore. Astrarsi dalla realtà per
effettuare voli pindarici non era impossibile. Erano così tante le attrazioni e
le novità che difficilmente si resisteva alle loro sviolinate.
Un vagabondo in genere passa senza
osservare….guarda con distacco, ma non si lascia attrarre.
La Sua vita è molto più importante.
I Suoi sogni sono pervasi da un
realismo dovuto al momento.
Sa cosa fare e dove andare in ogni
momento.
Anche se a volte l’inconsapevolezza lo
proietta in un vuoto sconfinato…….ma è sempre vigile, attento.
Sa di essere un vagabondo in un mondo
di cose “consolidate”, abbellite per apparire sempre interessanti e attuali…..
………sa di essere leggero e trasparente…
………sa di non fare la rivoluzione perché
già la vive dentro di sé.
Un vagabondo cammina con svogliatezza,
sembra distante…..ma non lo è.
Tutte
le volte che mi avventuravo in quelle strade assistevo da fuori all’agitazione
degli altri. Erano presi dallo shopping a buon prezzo e da quel tipo di
frenesia endemica che la città sa spacciare con maestria.
Cosa
gli passava per la testa!!! Pensavo.
Quale
desiderio volevano realizzare per primo di fronte a quelle invitanti vetrine!!!
Erano
singoli individui che si muovevano o era una massa indistinta di “cose vive” che
si spostava per esaudire “il sogno” collettivo del momento?
Mi
chiedevo quale potere ammaliante esercitavano sulle menti della gente
l’acquisto di un vestito, di un oggetto
qualsiasi o di un anello.
Ero
un ragazzo, forse un po’ troppo sognatore, ma non me ne rendevo conto.
Cosa
facevo tra quelle strade. Quella non era la mia Roma. Le strade del commercio,
dell’esibizionismo, della moda, dell’apparenza….non erano il mio mondo.
Io
ero lì per vagabondare, per vivere il mio sogno, per raggiungere l’etereo….che
non raggiunsi mai.
L’irraggiungibile pressava.
Stringevo il mondo…..e subito dopo
sentivo che mi sfuggiva.
Momenti di onnipotenza…..momenti di
esiguità.
Vagavo tra uno stato e l’altro.
L’indecisione svuotava l’essenza delle
cose.
Mi
rincorrevo per darmi l’illusione che avevo tra le mani ciò che cercavo, ma era
un semplice gioco mentale.
Per
arrivare a Fontana di Trevi seguivo sempre il medesimo percorso, sapevo che
anche gli altri si spostavano per quelle viuzze. Ci trasmettevamo sicurezza e
informazioni. Erano tempi difficili per i barboni, al primo errore si veniva
messi dentro e poi spediti a casa con un biglietto sulle tradotte
militari….quello che mi capitò dopo qualche mese preso per fame e con le mani
“a vagabondare” a Ceprano, in Ciociaria, nei dintorni di Frosinone.
Durante
la mia vita, sostenuto e amato dalla mia Pina, ho sempre cercato di riempire i
miei sogni con belle immagini di mondo. Da spiagge limpidissime a monoliti di
roccia immensi, da visi di bambini affascinanti a bellezze femminili
trasognanti, da villaggi colorati ad ecosistemi paradisiaci……in quei giorni a
Roma le tentazioni di via Nazionale o di via Condotti ammaliavano il turista.
Ricordo, di non essermi soffermato mai nemmeno per un attimo a guardare. Le mie
visioni mi proiettavano lontano e mi trattenevano dentro me stesso. Forse era
l’incompletezza oggettiva che contrastava con la mia finitezza interiore, fatto
sta che nulla mi tratteneva all’infuori della bellezza dei miei sogni.
Mi
risvegliavo solamente appena entravo in piazza. Li si che ero vigile, attento
ai nuovi arrivi. Non mi sfuggiva nulla.
Quando sogno di essere altrove….il
risveglio è sempre una delusione, un ricadere nel buio della stabilità…………..
…….e la noia mi assale e mi rende un
anima in pena.
Un sogno mi trasporta lontano……dal
conosciuto.
Quella
notte fu la mia prima notte sotto il mio
primo ponte.
Una
nuova conquista. Per me lo era….eccome! Ragazzino come ero, sognatore come mi
sentivo, quella nuova esperienza mi stava per coinvolgere interamente.
Sotto
un ponte sul fiume Tevere, dietro piazza del Popolo a dormire. Mi sembrava un
miracolo, il titolo di un film…….eppure era la cruda realtà.
Quella
notte, e per le diverse notti che seguirono, fino a quando la “forza del
potere” non ci schiacciò da quel luogo,
l’odore acre di un fumo inebriante, riempì di sé le menti e i sogni dei
vagabondi.
L’intera
visione, soffusa dall’esilarante nuvola di fumo che scaturiva dal nostro
fermento interiore, divenne la scena per antonomasia. Quell’immagine
idealizzata nei nostri sogni scese nella realtà e fu veramente un esplosione di
colori e di gioia.
Il
fiume che scorreva lentamente verso la sua meta e noi che, trasognanti,
spaziavamo con i pensieri verso le nostre rispettive mete, sublimavamo
l’interezza della scena. Niente sembrava essere fuori posto. Tutto si
incastonava con armonia e tutto scintillava di luce propria.
La
scena era sovrastata dalla figura
impenetrabile e gentile di una ragazza americana che tutte le notti, prima di
abbandonarci tra le braccia di Morfeo, si avvicinava, ci lisciava con una dolce
carezza e poi ci gratificava con un fresco bacio in fronte.
Tutte
le notti che dormii sotto il ponte Lei, impenetrabile, si accostava ad ogni
vagabondo e lo baciava…………dolce notte….
Non
vidi mai il suo viso alla luce del sole. Era come il vento….impalpabile ma
punzecchiante. Grazie al suo bacio vi ritornai per diverse notti, anche se ero
consapevole del forte freddo e dei rischi di retate che avrei corso continuando
a dormire sotto quel ponte.
Mi
inserii spontaneamente in un cerchio di fumatori mentre attendevano il proprio
turno per inspirare l’ebbrezza che donava la canapa indiana.
Più
in là vi era qualcuno che preferiva bucarsi con aghi incestuosi sperando di
“eliminare” in questo modo i propri simili e le paure e le angosce che gli
creavano dentro…………..riuscendo ad annullare, purtroppo, solo sé stessi.
Un tedesco con un rotolo di baffi
sotto il naso e una lunga criniera di peli in testa si bucava atrocemente sotto
quel ponte. Tutte le sere lo faceva e tutte le sere tentava di convincerci che
solo in quel modo la fredda società avrebbe ricevuto un vero schiaffo.
Uno
dei suoi figli, nell’indifferenza assoluta, si lasciava morire per suscitare
scalpore. Era come se volesse creare dei sensi di colpa alla società.
Poveretto…..sconosceva
l’insensibilità di questa nostra “civile società”.
Mentre
Lui si lasciava morire per punire il suo carnefice, essa celebrava l’avvento di
una nuova multinazionale sul campo mondiale e glorificava l’elevazione, tra gli
alti ranghi delle forze oscure, di una nuova fratellanza di potenti per
dominare e controllare l’intero pianeta.
Figuriamoci
se la Sua fine avrebbe creato scalpore o qualche crisi interiore tra i
componenti di simili organizzazioni………..ne doveva passare tanta di acqua sotto
quel ponte.
Si
perforava con attenzione e prima di farlo coccolava l’ago con la lingua per non
disperdere nemmeno un goccia di quel nettare divino. Lo seguiva con gli occhi
sbarrati, se lo spingeva con tutto se stesso dentro la pelle ancor prima che
quell’ago consolatore la traforasse.
Consolazione
celeste.
Sensazioni
di pace, di abbandono, di accettazione………….il tedesco non contemplava alcun
rischio, l’ultima cosa alla quale pensava.
Era
l’atto in sè, trasformato in rito, a tranquillizzarlo. Era geloso del suo buco,
lo ammirava mentre lo praticava. Da lì a pochi secondi l’eroina sarebbe corsa
dentro le sue vene e avrebbe interrotto quel fiume di adrenalina che lo stava
prosciugando.
Un
altro di quei “coatti” miracoli che la società spinge a fare.
Un
buco per la libertà.
Sentivamo
l’attimo in cui l’ago attraversava la pelle. Pur essendo qualche metro distanti
percepivamo il gorgoglio di quel liquido mentre si comprimeva per scorrere
meglio dentro quelle vene.
Malgrado
tutto………ci lasciammo cullare dal silenzio e dalle placide acque del Tevere.
Notti
incantevoli.
Io
avevo trovato da qualche parte un ritaglio di coperta con la quale tentavo di
riscaldarmi. L’umidità che saliva dalle acque del fiume era impietosa, non
riusciva ad innalzarsi verso il cielo perchè all’impatto con il sotto ponte ci
ripiombava addosso martoriando le nostre
fragili ossa.
Il vagabondo non chiede, non è curioso,
vuole solamente vivere in pace e trasfondere per conduzione questa sua pace
all’ambiente circostante.
Quando sente puzza, non la scosta………si
allontana più in là.
Osserva in silenzio ed in silenzio,
dentro di sé……..cerca di capire.
Conosce già la Verità…………sa che è Una e
sa che gli vive dentro.
Nessuno
sotto quel ponte mi chiese mai chi fossi, da dove venissi. Parlavamo con gli
occhi e ascoltavamo con l’intero corpo. Dai sottili sorrisi ci scambiavamo le
essenziali comunicazioni. Dalle movenze, dalla tensione che ci riposava sul
viso, dal modo come dormivamo si intuiva chi eravamo. Qualcuno non riusciva a
rilassarsi per via di pregiudizi non superati, qualcun altro si scuoteva nel
sonno pensando alle proprie situazioni familiari…………..la società non l’avevamo
abbandonata, la stavamo ancora portando con noi e, purtroppo, le conferivamo
ancora un peso enorme.
Tra
la scalinata e il sotto ponte iniziai a trascorre i miei giorni da beatnik.
Di
giorno seduto sulla scalinata, di sera a piazza Navona e di notte sotto il
nostro ponte. Per una settimana fu questo l’itinerario giornaliero.
Di
tanto in tanto durante questi spostamenti sentivo qualche “Vietnam libero”
lanciato al cielo con rabbia. L’altra parte di me poneva le orecchie e il cuore
verso questa altra realtà. Ancora non ero entrato direttamente nel movimento
studentesco, però mi sentivo attratto anche da questo altro mondo.
Stava
nascendo la rivoluzione. Stava già camminando in noi e tra poco sarebbe
sfociata tra le paludi compromettenti della politica.
Un
errore di non lungimiranza.
Stavo
già iniziando a conoscere qualcuno e stavo lentamente istruendomi specialmente
sull’arte del chiedere con dignità quel “minimo” di denaro per continuare la
mia avventura romana. Imparai anche le vie di fuga da usare durante le retate
che la “forza” ogni tanto decideva di fare. Ci dileguavamo in forma scomposta
per evitare concentramenti. In questo modo le loro reti non riuscivano ad
imbrigliare tutti, qualcuno sgattaiolava sempre………….per tenere alta l’insegna della Libertà.
Tutti,
a turno, abbiamo trascorso qualche ora sulle panche di legno duro di qualche
caserma della polizia. Volevano sapere chi eravamo e come mai ci trovavamo a
Roma. Io tenevo sempre in tasca una banconota da cinque mila lire per
dimostrare che almeno per un giorno sarei stato capace di nutrirmi…..e poi, il
giorno dopo, dicevamo, sarebbe arrivato il fatidico vaglia da casa per
permetterci di comprare l’atteso biglietto del ritorno.
Una
infelice storia che periodicamente si ripeteva rendendoci l’esistenza
impossibile.
Imparavo
anche a riconoscere la gente sincera da quella furba, chi avrebbe donato
qualcosa e chi nemmeno si sarebbe soffermato a guardarci.
Stavo
diventando un esperto dignitoso dell’accattonaggio.
L’arte
del sapersi proteggere è una pratica da imparare il più presto possibile. Anche
se ufficialmente non abbiamo delegato nessuno al rango di nostro Maestro, vi
sono però le nostre esperienze che parlano. Esse dovrebbero servire a proteggerci da noi stessi, dovrebbero darci
la forza del discernimento basata sul “già vissuto”, eppure, come si
dice……………cadiamo sempre nelle stesse trappole. Sono gli stessi errori a
martellarci in testa con la mazza dei sensi di colpa, che poi, puntualmente si
presentano tutte le volte che scopriamo che potevamo benissimo, questa volta,
non sbagliare.
Nel
nostro ambiente girava la voce che dalla “forza” bisogna sempre stare lontani.
Fidarsi sarebbe stato un disastro, però, quando si decideva di ritornare a casa
e non si aveva voglia, né la forza di affrontare il lungo spostamento per il
rientro, accettare qualche lieve compromesso con la polizia, non sarebbe stato
un male. In tanti, mi ricordo, si fecero “guidare verso casa” dagli aiuti che
lo Stato elargiva gratuitamente a chi decidesse il ricongiungimento con la
famiglia.
Per
molti era diventato addirittura un semplice divertimento.
Ci
si consegnava spontaneamente nelle loro mani, si veniva rifocillati, messi a
contatto con la famiglia e caricati con un foglio di via tra le mani, su
vecchie tradotte militari per rientrare a casa.
Dopo
pochi giorni si ripresentavano alla scalinata da eroi, non arrivavano nemmeno a
casa. Scendevano prima in qualche stazione e in autostop ripercorrevano la
strada verso Roma, o………..come ricordo, anni dopo, mentre vagabondavo ad
Amsterdam, qualcuno riuscì a farsi pagare il biglietto di ritorno per poi
rivenderlo a metà prezzo e riprendere alla grande l’avventura itinerante della
propria coscienza.
Era
come un sfida obbligatoria da sostenere per essere accettati nel mondo del
vagabondo romano.
Più
loro ci “perseguitavano”, più aumentava l’unione tra di noi.
Loro
ci trattavano con odio e ci consideravano sporchi……noi ci amavamo sempre di
più. Sapevamo che in fondo al loro cuore ci invidiavano perché volevano essere
come noi……liberi, belli, felici, con tante ragazze intorno.
Godevamo
dei nostri odori ed ognuno colorava di sé l’intera comunità.
Sotto
il ponte, protetti dal sole e da occhi indiscreti, vi trascorrevamo diverse ore
anche di giorno. Ormai si era sparsa la voce che sotto quel ponte si viveva
bene senza essere disturbati……………..arrivò, purtroppo anche il momento di
abbandonare quella pacchia. Troppa gente vi girava intorno e troppa droga
fluiva nelle vene di diversi ragazzi.
La
“forza”, dopo appena una settimana, si manifestò in tutta la sua potenza.
Arrivarono con camionette e con i manganelli in mano per sloggiarci…….il sogno,
quel sogno finì e lo trasferimmo momentaneamente in piazza di Spagna per
trovare un'altra soluzione.
Ormai
il ponte era il luogo di ritrovo per antonomasia. All’imbrunire ognuno si
ritirava in quell’oasi di pace e ci raccontavamo le esperienze del giorno: dove
eravamo stati, in quali luoghi la questua era più facile e dove gli sbirri
esercitavano con maggiore forza la propria autorità….si parlava di rimpatri e
di come farsi gratis un lungo viaggio sfruttando i veicoli dello Stato.
Qualcuno ci raccontò di essere stato rimpatriato dall’India proprio da Bombay
imbarcato su una nave merci fino in Italia, passando per Gibuti, Mombasa, Capo
di Buona Speranza in sud Africa, Lagos, Dakar Canarie e poi Genova in due mesi
di stupenda crociera.
Per
un vagabondo era come fare un viaggio mistico alla ricerca della propria Mecca
come lo è per i musulmani.
Si
parlava di queste cose…..e si sognava.
Un viaggio nell’eternità
Un pensiero nel nulla
Una vita passata
Un mondo immenso
Tutto nasce per rinascere nuovamente
dopo la morte
Ma quando ci fermeremo…..!
Quando potremo ricominciare a correre
per non fermarci più.
Dipende da noi o dagli altri!!!
Dal potere, dai ricchi…..
L’esistenza che stiamo assaporando dipende
dal volere dello Stato.
Autonomia vuol dire libertà
libertà vuol dire vivere
vivere vuol dire sentire sé stessi
sentire sé stessi vuol dire amare il
mondo, la gente….
Amare vuol dire essere riusciti a
scoprire anche la vita degli altri.
Non si può vivere sempre allo stesso
modo
Bisogna che si cambi
Che si inizi una nuova vita
Diversa
Più viva.
E’ difficile cambiare
Ormai siamo scivolati nell’abitudine
E’ difficile
dobbiamo riuscire
Sarebbe la morte precoce
Un viaggio!
Dove……………
(1981)
Intanto
la “legge”, nel buio della propria infida mente, tramava contro di noi.
Una
mattina fummo svegliati a calci da una masnada di sbirri che godevano nel
vederci impauriti e indolenziti. Le loro “gentili maniere” segnavano
ulteriormente la differenza che vi era tra noi e loro. Dalle potenti zampate
che ci scaricavano sulle ossa e dagli strattoni irriverenti con i quali
tentavano di farci spostare, emergevano tutte le loro frustrazioni interiori.
La loro rabbia repressa la svuotavano su
di noi perché per loro, noi, rappresentavamo l’espressione viva dei loro sogni
frenati. Non solo volevano spostarci da quel luogo, ma anche volevano punirci
per come eravamo.
Diversi
si, ma……come mai felici??!!.....questo non potevano sopportarlo.
Guai
a gioire della situazione in cui ci trovavamo…..dovevamo soffrire, stare male,
essere per forza tristi ma, soprattutto,
dovevamo nutrire invidia per la vita che conducevano loro. Solo così si
sarebbero sentiti appagati e forse avrebbero inveito con meno rabbia sui nostri
corpi……la nostra invidia li avrebbe rigenerati.
A
volte per stare bene o per gratificare la propria persona ed essere certi che
ciò che si sta per fare è sinonimo di bellezza, certi uomini hanno bisogno
dell’invidia dell’altro.
……………ma
noi non li invidiavamo…..forse li commiseravamo, e questo loro non potevano
sopportarlo.
Di
questi contatti così tristi ne ho avuto con le polizie di mezzo mondo.
Da
Amsterdam quando i nazionalisti in combutta con la legge ci bruciavano sin
dentro i sacchi a pelo a Kopenaghen dentro i parchi durante le retate violente
della legge, da Monaco quando venivamo sfrattati con violenza dalle case in
costruzione a Montecarlo mentre dormivamo sulla nostra R5 ci siamo visti
accecati da fari potenti, svegliati e cacciati via come dei ladri, da Sofia
accompagnati fino al confine a Mosca controllati a vista come terroristi……………un
intera società coalizzata ad opprimere le persone libere.
Frontiere
come bunker, ostili al vagabondo e servili nei confronti del potente. Doganieri
corrotti, sadici che ci tastavano con palese soddisfazione mentre cercavano
qualcosa che noi non potevamo avere……..volevano semplicemente far sentire la
loro “autorità” su di noi e costringerci a sentire il loro “controllo” anche
dentro di noi, obbligarci a chinare le teste e la dignità.
Ignoravano
che la nostra Libertà è qualcosa che ci vive dentro, e nessun potere sarebbe
mai riuscito ad annichilire il senso di
Bellezza e di Sovranità interiore che immanentemente ci rende OVUNQUE E
COMUNQUE UOMINI LIBERI.
Fummo costretti quindi a sloggiare.
Cacciati via come animali rabbiosi, pericolosi per la gente. L’insensibilità
della polizia non capiva le nostre esigenze, per loro eravamo solamente dei
vagabondi drogati senza una fissa dimora, sporchi, che lordavano la loro città.
Transumammo
in massa in Piazza di Spagna. Era l’unica zona che rimaneva ancora libera da
retate, quindi sembrava essere più sicura.
Sotto
quel ponte la vita era diventata difficile, persino l’acqua sembrava stagnare
più a lungo del solito emettendo odori nauseabondi. Noi non ce ne eravamo
accorti perché stavamo bene tra di noi, si cantava, si suonava e si sognava.
Qualcuno raccontava le proprie avventure, a volte qualcuno al suo rientro
portava una borsa di dolci e di bottiglie di vino. Si faceva subito festa e con
poco eravamo felici.
Una
bella vita.
Ormai
il ponte era vecchio, decaduto tra le grinfie dell’abitudinarietà………….e si
doveva sloggiare.
Grazie sbirri….le vostre retate ci
fanno gustare l’ebbrezza della libertà.
Ci spingono al rinnovamento…..e noi ci
rinnoviamo.
Ci costringono ad unirci, a stare
vicini….e noi ci amiamo.
Ci impongono cambiamenti
esistenziali….e noi cambiamo perché siamo liberi.
(1981)
In
quei giorni a tenerci uniti ci pensò l’Amore.
L’Amore
per la vita libera, con zaino in spalla e con i nostri sogni sempre vivi e
prossimi, ci tenne compagnia.
Ne
avevamo veramente di bisogno.
Nei
momenti di sbandamento, in cui si sente l’alito al collo del persecutore,
rifugiarsi nell’Amore e ad Esso dedicare tutti gli attimi della giornata, è
l’unica salvezza.
Dovevamo
trovare un nuovo posto dove dormire sereni durante la notte, e non era facile.
In quel periodo l’occidente rigurgitava dalle fogne un nuovo nazional-fascismo
intriso di violenza e di odio per i “Diversi”. Gruppi di giovani armati di
spranghe di ferro giravano di notte alla ricerca di vagabondi per pestarli e
mandarli via dalla loro città
Amsterdam
senz’altro ne era la capitale.
In
una delle mie tante notti trascorsi in quella città, mentre in centinaia
dormivamo sotto una galleria nei pressi di piazza Dam, un vagabondo venne
bruciato sin dentro il proprio sacco a pelo. Facemmo appena in tempo a tirarlo
fuori e trasportarlo in ospedale.
Estate
del 1970.
L’odio
stava ritornando. Era il frutto represso della ricerca ossessiva di un bello
spacciato per buono che non soddisfaceva più.. L’ unica realtà indifesa,
pacifista per indole, sulla quale scaricare questo odio…..eravamo noi: i
beatnik di piazza Dam.
Noi,
secondo loro, sporcavamo il salotto della loro città, noi eravamo gli intrusi,
i libertari da bruciare, da prendere a calci…..eravamo noi, non loro, a
lanciare immagini negative nel mondo sulla loro città.
Il
motto patriottico “Europa pulita” camminava in combutta con la “rivoluzione
totale”. A volte entrambi si confondevano negli atti di violenza che sputavano
contro chi era dall’altra parte……….e vergognosamente diventavano la stessa cosa
caratterizzati dall’odio per il “diverso” e dalla bramosia di prendere il
potere per divenire loro stessi persecutori………
di chi non la pensava come loro.
Il
potere non smentisce mai la propria natura. Chi lo detiene viene come posseduto
da un entità malefica che non vuole altro che “altro” potere……sempre più potere
per mantenersi radicati al potere stesso.
Sfrattati
ma felici ci depositammo sulla nostra scalinata come quei principi che hanno
perduto il proprio regno.
Solo
qualche ora per raccattare qualche soldo per poter mangiare e poi nuovamente ad
immaginarci la vita distesi su quelle scale. Il problema consisteva adesso nel
trovare un buon luogo dove dormire…..e non era facile. Eravamo in tanti e tutti
controllati e schedati dalla “forza”.
Non
sapevo dove andare. La stazione ormai era lontana dalla mia mente, l’unica cosa
che rimaneva da fare era sdraiarsi su un gradino di quelle scale e aspettare
l’arrivo……della fortuna.
In
quel periodo la fortuna, almeno da parte mia, non veniva per niente scomodata.
Già quel poco che stringevo con il mio corpo era il massimo. Mi sentivo felice
sopra ogni cosa. Bastava un angolo ritenuto sicuro dove deporre le mie ossa, ed
ero l’Uomo più ricco del mondo.
Per
mia propria natura non sono stato mai incline al lamento, ho sempre traghettato
la mia esistenza nelle altre sponde sempre con il sorriso sulle labbra e la
fiducia nel cuore. Nessuna tempesta ha assunto dentro di me aspetti turbolenti
e disastrosi, è stata sempre vissuta con dignità cercando di rispettarla fino
in fondo senza trascendere nell’odio o nella violenza per proteggermi.
Quei
giorni, anche se gravidi di instabilità, li vissi con gioia. Sapevo che ogni
momento era un momento di “vagabondaggio” lontano da casa e dalle sicurezze che
essa proponeva, quindi ero felice e mi sentivo sempre in viaggio.
Per
due notti ci assiepammo a Trinità dei Monti, anche se fino a notte fonda
difficilmente si riusciva a prendere sonno. Il caldo estivo richiamava schiere
di turisti per buona parte della notte, altri vagabondi confusi si affiancavano
a noi sperando di trovare un po’ di calore e poi vi era sempre la “legge” che
non smetteva mai di “proteggerci” con i loro sguardi. Addirittura in quel
periodo avevano installato sugli alti palazzi di fronte la scalinata delle
video camere, collegate con le sedi centrali 24 ore al giorno, per controllare
i movimenti di tutti coloro che vi bivaccavano.
Erano
così cari i nostri poliziotti che non ci lasciavano mai da soli, nemmeno di
notte. La nostra incolumità li assillava. Volevano essere loro per primi a
prenderci con le mani nel sacco….non so con quale refurtiva….che quasi quasi
avrebbero essi stessi messo in un angolino un po’ di droga per poi usarla come
grimaldello per scardinare la nostra “onorabilità”.
Eravamo
a conoscenza dell’Amore sadico che sentivano per noi, e noi, in un certo senso,
cercavamo di dilettarli a tutte le ore inscenando davanti i loro obbiettivi
pantomime esilaranti.
Scene
di lussuriosi rapporti sessuali per stimolare la loro fantasia, scene di lotte
furibonde per eccitare i loro istinti, gesticolavamo senza senso pur di tenere
i loro sguardi impegnati su di noi. Non scordavamo mai di dargli la buonanotte,
prima di abbandonarci tra le braccia di un sonno liberatore.
Stranamente
quelle due notti non successe niente di strano, anche se ci arrivavano continue
voci di attacchi fascisti a gruppi di barboni o di beatnik durante le ore
notturne. Agivano al buio ed usavano il fuoco come arma………….infami.
Non
mi sono stancato mai di ripeterlo nella mia mente.
L’alba tra i palazzi romani non si
vede.
Si
sente nell’aria solo un leggero bagliore rossastro che sembra tingere di rosso
rosa le facce della gente.
La lunga notte ha sublimato le visioni
scontate del giorno.
I colori vivaci, dal tepore caldo dei
giochi d’ombra che crea il sole, s’incupiscono divenendo blandi e piatti.
Le corse frettolose della gente si
assiepano tragicamente in un letto.
I canti degli uccelli diventano lugubri
e silenziosi.
La gente aperta si chiude, diffida e
fugge il rapporto diretto col prossimo.
Ciò che di giorno è normale, di notte
diventa irreale, misterioso……
Una donna sola di giorno rientra nella
normalità……
…..di notte diventa civettuola,
prostituta, facile preda.
Un cane di giorno non fa paura….ma di
notte insospettisce la nostra sicurezza.
I locali aperti diventano centri di
incontri fugaci e……..
……la strada illuminata e sicura di
giorno, la notte la rende diffidente e triste….
…….e noi, milioni di vagabondi,
diventiamo guardinghi, rinserriamo le schiene per farci coraggio……..e chiudiamo
gli occhi al mondo per osservarci dentro.
(1981)
Per
un Vagabondo affrontare la notte è un’incognita.
Anche
se vive l’intero giorno chiuso nel proprio buio, la notte è qualcosa che arriva
da lontano e non sa come gestirla. Porta poca luce e non riesce ad illuminare
il buio dell’anima, anche se a volte la Luna tenta di squarciare questa coltre
di oscurità e le Stelle tentano, in armonia,
di affievolirne le tenebre……..difficilmente il Vagabondo si presta a
questa fonte di luce esterna.
Lui
vive di luce propria, riflessa dentro di Sé, che illumina, a sprazzi, ciò che
gli interessa rischiarare in quel momento.
Quelle
due notti sulla scalinata sognai ad occhi aperti……………vedevo luoghi lontani,
deserti e montagne cariche di neve, sognavo rumorose città orientali e
prodigiosi spostamenti su fatiscenti autobus. Osservavo con distacco la mia
vita sulla Strada mentre si affiancava al camminare del Mondo, in punta di
piedi…….pensavo ai miei fratelli Vagabondi d’America, sprangati dalla polizia in
qualche stato puritano dell’est, al freddo che sentivano e al calore che si
trasmettevano rinserrati su qualche vagone ferroviario………..
Quella
notte ero l’unico essere esistente sulla Terra.
Dove
era finito l’Uomo!!!
In
quella scalinata mi aggrappavo a me stesso per fugare la paura, volevo salvarmi
dalla distruzione…………..e mi abbracciavo.
Non
ero io a fuggire dal Mondo, erano gli altri che fuggivano da me.
La
mia Sicilia, le mie certezze, in quelle notti mi turbinavano dentro. Pensavo
agli amici, all’Amore che ci scambiavamo…..se era sincero o se era un semplice
rito da recitare per mantenere alto il gradimento di una morale borghese.
Intanto
mi trovavo a Roma a vivere la mia avventura e a toccare con tutto il mio corpo
il mio sogno. Scivolavo nella notte senza aspettare il giorno. Sapevo che
sarebbe arrivata la luce da fuori e che si sarebbe aggiunta alla mia
luminosità, sapevo anche che la mia luce sarebbe servita solo a me,
difficilmente avrebbe scardinato la patina di buio che avvolge la società.
Desiderando di correre…
…non sento altro che la corsa.
La libertà raggiunta….si ferma e si
annulla.
Desiderando di contino…
…mi sento vivere.
Non si può essere se non si desidera.
Desiderando qualcosa…
…diventa inutile quando la si possiede.
E’ bello conoscere…e mai poter sapere.
(1981)
La
pace della notte dà sempre buoni consigli. La mattina seguente, infatti, in
tanti si trovavano già lontani da quel luogo. Non si sa come e perché, ma,
appena il sole inizia ad alzarsi, si è già con lo zaino in spalla a ciondolare
verso altre mete.
Questo
ricambio avveniva continuamente, e regolarmente la nostra piazza si colorava
sempre di nuovi elementi.
La
caratteristica di un luogo non viene segnata solo dalle opere artistiche che vi
risiedono stabilmente, ma è questo continuo ricambio di gente e di energie che
dipinge sempre di nuovo la sua Bellezza. Un negozio di fiori inebria di olezzi
delicati l’intera piazza, un ragazzo in un angolo, mentre esegue la propria
musica, colma di delicata armonia l’atmosfera del luogo.
Tutto ciò che scorre alla fine lascia
sempre qualcosa di sé.
Colora di infinite sensazioni l’attimo
e da quell’attimo esplode l’Assoluto.
Senza di Esso nulla esiste……grazie ad
Esso il divenire rimane Assoluto.
Non fugge via come sembra……………
Gli
zaini accatastati in un angolo coloravano di mondo la scalinata. Ognuno
conteneva una vita. Portavano speranze, sogni, sofferenze, felicità,
amori……rabbia, tristezza, delusioni, amarezze……zaini intrepidi, muti testimoni
di avventure estreme, folgoranti, pesanti e nostalgici………zaini pieni di
cianfrusaglie, di storie personali, di impavide avventure lungo le strade…………..
Ancora
non possedevo un mio zaino. Avevo acquistato solo qualche indumento intimo in
una bancarella e nient’altro. La leggera coperta, raccattata sotto il ponte, la
tenevo al sicuro dentro una busta di plastica che accuratamente durante il
giorno nascondevo aldilà di un muretto. Ancora usavo strati di cartone per
isolarmi dal freddo e non pensavo affatto di cambiare la mia condizione.
L’igiene
intima trascendeva le normali regole sociali. Usavo l’acqua di giorno per
rinfrescarmi il viso e di notte ci immergevamo nelle sontuose vasche romane per
sciacquarci le parti nascoste.
Non
pensavo ancora al rientro a casa, tenevo già Firenze stampata nel mio cuore
come la prossima meta da dove arrivavano notizie di piazze brulicanti di
Beatnik e di Vagabondi.
L’alluvione
del ’66 aveva creato un clima così caldo di solidarietà che sembrava vivere in
una Comune allargata. Mi raccontavano che il vagabondo veniva accolto con
grande apertura mentale e racimolare qualcosa per mangiare era molto facile e
poi la polizia era molto tollerante……….bastava solo rimettermi sulla Strada per
dare piedi a quest’altro sogno.
La
Strada era sempre lì, mi aspettava e non rischiava di annoiarsi durante
l’attesa. Dovevo prendere solamente la decisione………
……..la Strada!!........cambia
continuamente.
Il colore emergente è il grigio scuro,
a volte si colora di grigio chiaro, altre volte assume il colore della
sabbia…..diventa persino bianca, una lunga striscia di ghiaccio, poi diventa
color fango….ma è sempre la Strada.
Viene usata da tutti per spostarsi………….
………………per noi vagabondi è UN MIRACOLO.
L’amiamo come nessun altra cosa e
combattiamo contro quel potere che cerca di limitarne su di Essa il libero
movimento.
Le barriere non bloccano il Vagabondo,
Lo rendono triste..….limitato.
Le frontiere non sanciscono nulla.
Lui è Libero…..ovunque.
Anche se viene bloccato…..riprende la
Strada di prima, ed è sempre in cammino.
L’alba
tra i palazzi romani tinge di rosso solo i tetti delle più alte costruzioni. Le
piazze e dopo le viuzze vivono questo rossore solo di riflesso. Non riescono a
colorarsi pienamente, aspettano più luce per brillare di luce propria.
Un Vagabondo non chiude mai gli occhi.
Assiste inebetito al travaso della luce
nel buio e del buio nella luce…distaccato.
Un distacco contemplativo…….mistico.
Un Vagabondo non aspetta la luce….e
nemmeno il buio.
………….vive semplicemente.
Quelle due notti mi servirono
da base di lancio.
Conobbi
due “grandi anime” che mi custodirono, mi nutrirono e mi istruirono per
l’intero mio soggiorno a Roma.
Quando,
tempo dopo, scomparirono perché risucchiati dalla “legge”, soffrii moltissimo.
Non rimasi nemmeno un giorno in più in quella città e ripresi a vagabondare
partendo per Firenze.
Furono
agguantati mentre facevano le loro abluzioni mattutine in una delle antiche
fontane romane, messi dentro e puniti per aver infranto la legge.
Quei
due miei primi Maestri erano entrati nella mia vita come un fulmine,
stravolgendomi dentro e sollevandomi fisicamente a rango di “vero Vagabondo”.
Franco
era di Milano e Mario di Genova, due vagabondi prodigiosi nel vagabondare e
affascinanti per il modo come affrontavano la giornata.
Per
intere settimane rifocillarono tutti i
vagabondi di Piazza di Spagna.
Il
sole era già alto quando, da sotto diversi strati di cartone, sprizzarono allo
scoperto le mani e i piedi di un corpo raggomitolato su se stesso. Cercava di
liberarsi dal freddo della notte
stirando le membra e lanciando nell’etere sonore imprecazioni, tipiche
manifestazioni di un polentone milanese disturbato nel meglio del sonno.
Nella
bestemmia Franco esprimeva tutto sé stesso. A parte le tante qualità che
possedeva, nel nostro mondo divenne famoso per l’intensità e la potenza con la
quale riempiva l’etere con le sue bestemmie. Le recitava come fossero un
mantra, e dagli alti e bassi dei toni, di volta in volta, trascinava sulla
terra le divinità corrispondenti verso le quali le indirizzava.
Un
grande bestemmiatore, forse per abitudine o forse perché sentiva il bisogno di
avere un interlocutore continuo disposto ad ascoltarlo in ogni momento della
giornata……fatto sta che, nella nostra piazza, non passava un minuto senza
sentire risuonare l’eco di qualche sua imprecazione.
Era
un relitto della contestazione studentesca milanese ancora in stato nascente.
Da subito si era posto in posizione critica perché aveva intuito l’interesse
morboso che nutrivano su di esso i vari partiti della sinistra………abbandonando
tutto e scendendo giù a Roma a vivere la Sua lunga esperienza di Vagabondaggio.
Da
qualche mese si muoveva in questo mondo ed era diventato, suo malgrado, uno dei
più famosi vagabondi di Piazza di Spagna.
Decideva
ed agiva da leader. Personaggio di grande cultura, incline all’ironia e con un
cuore immenso. Sempre pronto a difendere il più debole e a mettersi in prima
linea quando ci si doveva confrontare con la polizia. Questo Suo carattere gli
costò diversi giorni di gattabuia fino a quando, improvvisamente, non si seppe
più nulla di Lui.
Non
soffriva gli sguardi pietosi della gente. E’ stata una sua scelta vivere quest’avventura
e nessuno doveva commiserarlo per come al momento viveva.
Per
la grande Dignità con la quale chiedeva denaro incuteva timore e la gente si
sentiva obbligata a darGli qualcosa. I suoi atteggiamenti così sicuri e liberi
mettevano in imbarazzo. Non sembrava un “vagabondo”, sembrava più un
intellettuale con i suoi occhialini rotondi pronto a fare una lezione sulla
“vita da vagabondo”.
Per
diversi giorni dipesi da Lui. Non voleva che andassi a chiedere denaro,
pensava a tutto Lui.
Vi
era anche Mario, genovese dalla statura immensa, che insieme formavano una
coppia insostenibile. Quando si spostavano insieme la questua era assicurata e
abbondante. Divenni il loro pupillo. Avevano qualche anno più di me, ma
dimostravano esperienze innumerevoli e capacità eccezionali.
Spesse
notte uscivano da soli per poi rientrare alle prime luci dell’alba. Nessuno
sapeva cosa facessero e dove fossero stati……..ritornavano sempre carichi di
soldi e con scatole piene di dolci.
Seppi
anche di concitate corse con la polizia e di lunghe ore distesi sotto le
macchine per non farsi notare. Verso la fine della mia avventura romana, prima
che scomparissero del tutto, mi parlarono di piccoli furti in tabaccherie dove
entrare furtivamente in piena notte era un gioco da ragazzi.
Alla
fine tentai di aggregarmi a loro perchè mi sentivo di peso, però non vollero
mai. Vollero tenermi sempre in disparte da quelle acrobazie notturne.
Mentre si strofinava gli occhi con
una mano, con l’altra cercava di prendere da dentro le scarpe gli occhiali. Non
vedeva ad un palmo dal naso, senza di essi non riusciva a spostarsi nemmeno di
un metro.
Di dove sei!!!
mi chiese,
Siciliano
Simultaneamente
la mia timidezza mi coprì il viso di quel solito rossore che già conoscevo.
E tu!!
Milano…..andiamo
a prendere un latte!
Scosse
gli ultimi strati di cartone che lo coprivano e prese nuovamente possesso di
quella scalinata.
Aspetta un
momento quando vedo se posso recuperare qualche lira, risposi.
Non ci
pensare…..ho piene le tasche di spiccioli e possiamo benissimo usarli.
Qualche
gradino e subito ci trovammo al bar a consumare una sontuosa colazione.
Da molto che
stai a Roma!
Lo sai……….come
ti chiami!
Nuccio.
Lo sai Nuccio,
chiedimi qualunque cosa, ma non chiedermi mai da quanto tempo mi trovo in un
posto. Non riesco a rispondere liberamente sul tempo trascorso, e poi…..è
meglio non ricordarsi da quanto tempo si è liberi. Quel poco spazio di libertà
che abbiamo non ci è stato regalato da nessuno, abbiamo sicuramente, ognuno,
sofferto e lottato per ottenerlo.
Chiedimi chi sono, se sono vivo, se amo, se mi sento
me stesso…..
Come mai ancora
non hai trovato un luogo migliore in cui dormire?
Vedrai stasera
di quanta estrosità sono fatti i vagabondi. Per noi non esiste ostacolo. Al
momento, se lo vogliamo, siamo capaci di andare oltre qualunque ostacolo.
Riempiamo completamente il momento presente e da esso traiamo quel bello che
altri non vedono. Altri momenti invece ci abbandoniamo rovinosamente in una
apatia imbelle priva di alcuna reazione…..un vagabondo è anche questo.
Ti
credo………..come ti chiami!
Francesco………..ma
chiamami Franco.
Hai ragione
Franco, lamentarci di ciò che abbiamo al momento è come rinnegare le scelte che
noi stessi abbiamo fatto………
Ma che cazzo
dici……perché non dovrei lamentarmi della mia situazione quando al momento mi
trovo con tutte le ossa rotte! Io mi lamento, protesto…le mie ossa gridano
dolore, la mia rabbia strilla, però, tu giustamente dici….ma se l’abbiamo
voluta noi questa situazione!! Si…si, però è una situazione coatta, indotta da
uno stato di fatto infelice che viviamo in questa società liberticida…….
L’energica
personalità di Franco da quelle poche parole iniziava già a scandirsi con netta
definizione emergendo su tutti gli altri. Prometteva notti comode su caldi
materassi in gommapiuma. Speravamo in Lui per spostarci da quel luogo pieno di
insidie e di tristi presagi, in uno spazio più protetto e più caldo.
Gli
altri stavano per svegliarsi proprio in quei momenti. Dai loro stiracchiamenti
e dal gonfiore del loro visi, si intuiva come avevano trascorso la notte.
Qualcuno ritardava più degli altri prima di rimettersi in piedi, era stanco o
non aveva ancora alcuna prospettiva definita nella mente sulla giornata che
stava per iniziare. Non volevano assolutamente scostarsi, intanto gli spazzini
comunali, come tutte le mattine, non solo spazzavano dal lerciume quella
scalinata, ma la inondavano con un getto d’acqua violento in modo da togliere
il grasso che vi si era depositato il giorno prima. Dovevamo per forza
spostarci da quel luogo, almeno per qualche ora.
Cosa fai oggi!?
Preferisco
rintanarmi in questa scalinata perché non ho voglia di girare tra i palazzi romani.
Non riescono a stimolarmi nulla. Sono solo fredde sculture in cemento dove vi
si rifugia l’Uomo illudendosi che tra quelle quattro mura un giorno, forse,
ritroverà sé stesso e parte della Libertà perduta…………….ma tu sai che è solo un
sogno. Sai che la Libertà non è qualcosa da cercare o da ritrovare, sai che nel
continuo cercare difficilmente trovi ciò che veramente desideri…sono le solite
frasi ad effetto che abbiamo imparato a memoria e che non portano a nulla. La
Libertà, caro Nuccio, non la si deve cercare perché in questo modo legittimi il
Suo diretto contrario, la Libertà si vive…….si gusta e ci si perde dentro il
momento presente, perché è li che Essa risiede.
……….allora non
senti proprio il bisogno di conoscer qualcosa di Roma? Vi dormiamo da diversi
giorni ma ancora non conosciamo nulla….nemmeno il Vaticano….
Quel luogo è
meglio non conoscerlo, anzi più lontani vi stiamo e meglio è. Vi risiede il
Papa e tutte le Sue ricchezze. Vi si muovono intorno suadenti arpie che con i
loro canti cercano di imbrigliare le libere Coscienze della gente……..è meglio
sognare altri siti in cui soffermarsi per fare il turista.
…………e quella
felicità celeste che offre indistintamente a tutti………basta essere moralmente
bigotti e socialmente altolocati?!
………non ne ho proprio
bisogno. Sto bene così.
Il decadere dei discorsi ci spingeva
istintivamente ad alzarci. Volevamo interromperli subito perché sapevamo a
priori verso quale malessere interiore ci avrebbero spinti.
Eravamo
andati tutti via da casa con rabbia, con un forte sdegno verso questa
società……..nel tempo però, questa collera rabbiosa, a contatto con la nostra
nuova condizione, lentamente stava divenendo amarezza, senso di apatia
cosciente che tende più al rifiuto che all’accettazione. Sentivo qualcosa
avanzarmi dentro, spingermi all’emarginazione, ad escludermi coscientemente da
quella società così farisea e fortemente razzista. Già sin d’allora ero
consapevole che un mio allontanamento da questo mondo avrebbe contribuito,
seppure indirettamente, al mantenimento delle sue sozzure. Li avrei sostenute
pur non condividendole e allevate dentro di me fino ad esplodermi
dentro………………era quello il mondo in cui vivevo, ed era lì che dovevo apportare
il cambiamento, la rinascita, e non potevo allontanarmi per contestarlo da
fuori.
Lo sai Franco
che hai ragione!! Smettiamo di parlare di queste stupidaggini e diamo conto al
nostro stomaco che inizia a borbottare……
….dividiamoci
per mezz’ora lungo le strade per racimolare qualcosa per mangiare e mandiamo a
quel paese questi nostalgici pensieri.
Chiedere
qualcosa mi era diventata, in quel periodo, un azione congeniale. Mi sentivo
felice di farlo perchè sapevo che grazie a quell’azione si sarebbe prolungata
la mia permanenza in quella piazza.
Osservando
gli altri e ammirando la mia intraprendenza nell’accattonaggio, affinai nel
tempo delle tecniche particolari da impiegare, sempre in modo diverso, ogni
qual volta si presentava un soggetto nuovo.
L’esperienza
in quest’arte, nella storia dell’Uomo, ha permesso a milioni di beatnik o di
viandanti di “vivere il Mondo” senza fermarsi di fronte a nessun ostacolo. La
diversità dei vagabondi, la loro Conoscenza, la loro sensibilità e l’Amore che
hanno per se stessi ha dato più o meno lustro a quest’arte.
Viverla
con Dignità ne gratifica l’essenza e la
rende decorosa di fronte alla propria coscienza.
L’arte
si ingentilisce quando la si vive intensamente, non come un semplice gesto dal
quale si vuole ricavare qualcosa, ma come un esigenza dell’anima che coinvolge
l’intero corpo.
Cercai
di personalizzarmi un mio metodo, ed in effetti i risultati furono più che
soddisfacenti. Non mi fermavo di fronte a nessuno. Li consideravo miei
potenziali clienti dai quali trarre il mio sostentamento. Ancora prima di
avvicinarmi, dentro di me, li ringraziavo e li abbracciavo a prescindere.
Sapevo che quell’atteggiamento interiore mi avrebbe facilitato l’operazione.
Vedevo il mio cliente non come un pollo da spennare ma una cara persona da
ringraziare, oltretutto, per essersi messo sulla mia strada.
Credere
al “caso” fortuito, capitato lì per miracolo, già fin d’allora sentivo una
certa avversione. Non mi abbandonavo liberamente a quel concetto superficiale
che raggruppava molti degli eventi della vita sotto l’emblema della casualità.
Pensavo ad un programma, ad un cammino costruito da tempo dove i partecipanti
principali ed esclusivi saremmo stati noi. Noi che inter agiamo con l’intero
Mondo………Noi che già abbiamo implicito il percorso sul quale camminare per ritornare nel luogo
dal quale siamo partiti……….Noi che non ci siamo mai impediti di camminare ed
illusoriamente crediamo che forse un giorno arriveremo, senza sapere che già la
meta ci vive accanto da tempo.
Prima
di partire alla carica osservavo il viso dei miei potenziali sostenitori………se
era meravigliato, infastidito, annoiato, pietoso, sprezzante, gioioso,
amorevole…….quante più sensazioni gli leggevo nel suo corpo e meglio era per
me. Sarei andato a colpo sicuro adottando la strategia giusta.
Ad
Amsterdam, solo due anni dopo, stavamo seduti in tre in piazza Dam dietro ad un
cartello trilingue, italiano, francese e inglese, dove vi era scritto che
eravamo semplici studenti in giro per l’Europa. Con noi vi era un tedesco con
il suo flauto a deliziare la curiosità del passante e, miracolosamente, una
pioggia di denaro scendeva ai nostri piedi. Tempi gloriosi.
Col
tempo su quella scalinata l’arte del chiedere subiva continui ritocchi. Ognuno
apportava miglioramenti funzionali alle
proprie esperienze.
Si
scrutava “l’oggetto” animato che si doveva abbordare e si cercava di rubargli
una fugace occhiata. Quel breve incrocio di sguardi smorzava le ritrosie
interiori e come per incanto, allungando la mano, ottenevi sempre qualcosa. Con
quelli invece che non si riusciva ad intercettare lo sguardo, difficilmente si
otteneva qualcosa, a quel punto era meglio rinunciare.
Tutto
questo travaso di sguardi e di sensazioni avveniva in pochi secondi.
Ognuno
di noi si era preparato nella propria mente, in relazione al personaggio da
abbordare, dei piani d’attacco…………..ed era veramente una pacchia.
Se
era giovane e un po’ beat bastava avvicinarlo con un semplice “ciao”, dargli il
“tu” per trasmettergli la nostra “vicinanza”, e quasi sempre si riusciva
nell’intento.
Se
era giovane e un po’ borghese….avvicinarlo sempre con il solito “ciao” dandogli
il solito “tu” seguito dalla fatidica parolina “per piacere” in modo che
permane la vicinanza però rimane anche un po’ di distacco per fargli sentire la
nostra inferiorità…..risultato quasi sempre assicurato. Costoro si sentono gli
unici preordinati capaci di stimolare il cambiamento della società, a noi
bastava allora farglielo credere e tutto era fatto.
Se
era una giovane signora di belle avvenenze…..mi scusi potrebbe darmi qualcosa!!
Il risultato dipendeva dall’intensità e dal modo come si guardava negli occhi.
Avevano bisogno di “riconoscimenti”, e noi con i nostri sguardi di
apprezzamento stimolavamo queste sensazioni.
Se
era una vecchietta un po’ trascurata…….signora mi scusi, può darmi qualcosa…è
da tanto che non mangio ed ho tanta fame. Risultato assicurato.
Se
era un uomo di mezza età bisognava avvicinarlo invece quando era con la
famiglia…….mi scusi, potrebbe aiutarmi in questa mia avventura!!?
Tecniche
approntate sul momento ma efficacissime. Bastava renderle elastiche e
praticamente l’effetto desiderato era assicurato………..e poi vi era sempre
l’attrazione personale ad attrarre l’attenzione del passante. Bastava
strimpellare qualcosa su uno strumento musicale, bastava leggere a voce alta la
Divina Commedia, bastava mimare qualche scenetta senza senso, bastava
raccogliere bottiglie di vetro abbandonate e portarle in salumeria………ad
Amsterdam vivemmo diverse settimane raccogliendo e rubando da dentro i bar qualunque
contenitore di vetro……….allora chiedere sussidi alle ambasciate italiane
all’estero era molto di moda e nessuno dei vagabondi incontrati aveva
rinunciato a questa fonte di sopravvivenza sicura. Lo feci a Rawalpindi, a
Kabul, a Bombay e a New Delhi, a Malta, a Tunisi e in Polonia……
Qualcuno
andava anche a chiedere sussidi nelle ambasciate straniere e quasi sempre vi
riusciva, si cercavano cantieri di lavoro italiani all’estero per avvicinarli e
chiedere un aiuto. A Tunisi mi avvicinai in un circo equestre italiano e
ottenni qualche aiuto……era sempre il desiderio di andare avanti, di calpestare
questa nostra Terra a farci immaginare una vita serena, libera e piena di cose
belle.
Un
mio grande amico e Maestro di vagabondaggio, Attilio Angelo Aleotti, mi istruì
a Monaco, nel 1971, sull’arte del mangiare deambulando.
Entri
in un super mercato, con dignità prendi un quadratino di cioccolato e lo
sciogli in bocca…….una banana, la sbucci, e la gusti con il sorriso sulle
labbra…….un formaggino della “vacca che ride”, lo scarti e con delicatezza lo
ingerisci……un panino e lo mastichi con distacco…..alla fine apri una bottiglia
di acqua frizzante, o un birra, e la fai scendere con gioia lungo il palato.
Una degustazione “itinerante” non può essere punita, al massimo possono
gentilmente consigliarci di uscire fuori……..e noi lo facevamo con passi sicuri
e dignitosi.
In
un Suo libro, discusso come tesi durante la laurea, Attilio asseriva che anche
i medici consigliano di mangiare in movimento. E’ l’unica terapia che stimola
la digestione e permette, se lo si
vuole, di risparmiare un mare di soldi.
Nel
’70 a Mons, con Pino Pesce, dopo aver attraversato più di mezza Europa in
autostop, ci trovammo in uno di quei capannoni che usano i Testimoni di Geova
per rinverdire il loro credo. Siamo stati accolti come quel “figlio prodigo“
che si è smarrito sulla strada del risveglio da sfamare e da aiutare. Erano
tutti emigrati italiani quindi ci hanno coccolati con grande gioia e per
diversi giorni siamo stati loro ospiti.
In
quegli anni gloriosi la questua per sopravvivere era veramente un itinerario
sul quale camminare a testa alta. L’unica possibilità che avevamo per viaggiare
e per conoscere il nostro Pianeta era l’incedere su questa strada ovunque ci
trovavamo.
La
mia famiglia non poteva sostenermi economicamente in queste avventure,
bisognava inventarsi qualcosa, essere intraprendenti e “faccia tosta”, come si
dice da noi. Io, per natura e per via della mia balbuzie, difficilmente mi
abbandonavo a comportamenti da “faccia tosta”, eppure pur di vagabondare strattonavo la mia Coscienza
assoggettandola alle esigenze del momento.
Non
perdevo occasione per “appropriarmi giustamente” di qualcosa di solido che
sarebbe servito al mio sostentamento. Qualche volta dormimmo in ostelli senza
pagare, dando generalità fasulle, salendo su autobus o su treni senza
biglietto, sfruttando qualunque mezzo di comunicazione aleatorio pur di non
pagare….in Perù, e in buona parte del Sud
America, ci siamo spacciati per studenti mostrando attestati
universitari scaduti da anni, anche in oriente, specialmente in India, abbiamo
avuto accesso in musei o su aerei esibendo tessere per studenti fuori
corso…….insomma una vita continua alla ricerca di risparmiare qualche somma di
denaro pur di continuare la nostra avventura.
Orgogliosi
lo siamo sicuramente.
Mi
sento felice di aver viaggiato in questo modo, e se posso ancora oggi continuo
a farlo, soprattutto quando si tratta di sfruttare l’assurda presenza del
potere. La sua prepotenza è irrispettosa, non guarda in faccia nessuno,
specialmente quando sa di aver da fare con individui deboli, indifesi, affina
le proprie armi e la sua forza diventa veramente opprimente e devastante. Solo
col potente di turno, il prepotente
occasionale si ridimensiona un po’, ma solamente perché ha capito che grazie a
quel potente l’essenza stessa del “potere” trova legittimazione e continuità.
Ci
rivediamo dopo un ora sulla scalinata e pervasi da una gioia interiore ci
avviamo a tramutare quel “vile denaro” in cibo per il Corpo e per lo Spirito.
Intanto il trascorrere del tempo
cadenzava la mia permanenza a Roma.
Non
avevo notizie dei miei genitori da
giorni, e loro, sicuramente, soffrivano per questo mio silenzio. A volte mi
ritmava nella mente lo scandire dei passi nella piazza del mio paese. Sentivo
quelli di mio padre, possenti e autoritari mentre aspettava l’arrivo del prossimo autobus sperando di vedermi
scendere.
Ero
cresciuto nella piazza, in essa avevo vissuto momenti di gloria e momenti di
tristezza. Essa rullava tutto ciò che le si metteva contro, emetteva un proprio
suono fatto di falsi moralismi e di poteri consolidati nel tempo. Vi erano
tutte le sedi dei partiti politici, le varie associazioni rionali, lì si
fermava il fercolo con la Santa da festeggiare con accanto il prete e i potenti
del paese……..la piazza non lasciava spazio al “diverso”, lo rimbrottava con
urli grondanti di un gretto conservatorismo o lo confondeva con un silenzio
tonante.
Il
vociare del paese è molto assordante, specialmente rimbomba con più rumore
nelle orecchie e nella psiche di chi a
queste voci da un importanza vitale. Mio padre era uno di questi. Non riusciva
a liberarsi da questa cappa opprimente.
“La
piazza è il polso del paese, diceva, essa crea mostri o santi con grande
superficialità…….dobbiamo vivere in silenzio senza andare oltre quel “già
consolidato” e accettare le regole senza protestare in modo da rimanere a
distanza dai giudizi della piazza”.
Quella
sera Franco mantenne la promessa. Ci condusse tutti nel luogo vagheggiato dove
poter dormire in comodi letti sicuri e caldi. Si doveva solamente percorrere
qualche chilometro di strada, ma era tutto così bello, ovattato, odorava
addirittura di casa, che rinunciarvi era da incoscienti, difatti vi dormimmo
per più di una settimana, fino a quando la solita polizia non venne a cacciarci
via.
Era
il luogo dove venivano depositati i treni in disuso o in via di manutenzione.
Le carrozze erano veramente tante ed in parte erano già occupate da altri
vagabondi, noi eravamo gli ultimi arrivati, ma non ci scoraggiammo perché ci
siamo subito sentiti a casa. Mancava solo la luce e l’acqua corrente, il resto
sembrava disposto tutto per noi. Ci stavano aspettando comodi letti viaggianti,
due per stanza, pronti ad accoglierci e dondolarci con quel senso di movimento
connaturato in un vagone ferroviario.
Mi
ricordo che sognai quasi tutte le notti.
Ad
occhi aperti ammiravo l’andirivieni di paesaggi affascinanti, cullato dallo
sferragliare di un treno che sapevo mi stava portando lontano.
Chilometri
e chilometri di spazi vuoti venivano bucati dal mio treno e man mano che li
attraversava li riempiva e li colorava dei luoghi verso i quali sognavo di
andare. Un viaggio da sballo tra interi branchi di Hobos assetati di Libertà,
avvinghiati agli assali dei treni che rischiavano la vita pur di vivere
all’aria pulita.
Un
sogno itinerante, che trascinava e disintegrava interi agglomerati di emozioni
accatastate dentro di me che non
mi lasciavano respirare.
Ci
guardammo intorno, emozionati e felici del bel regalo che ci aveva fatto
Franco.
Entravamo
da una fessura praticata nel muro di recinzione. Qualcuno prima di noi aveva
provveduto ad allargarla e a mimetizzarla con pezzi di mattoni amovibili.
Guardinghi scivolavamo dentro e con passi felpati da pantera rosa, tutte le
sere, sceglievamo ognuno il proprio vagone per prendere possesso delle proprie
stanze.
Franco…come hai
scovato questo posto!
Fregatene,
dormi, sballati e non pensare a nulla. Ringrazia la fortuna e vivi intensamente
il momento presente.
Aveva
come sempre ragione e nelle sue parole trovavamo tanta saggezza.
A
differenza dei mitici Hobos americani tanto decantati nel libro di Jack London
“La strada” che vivevano pericolosamente sui treni la loro vita, noi, grazie
alla nostra buona stella, usavamo quegli stessi treni per riposarci e per
vivere favolosi viaggi virtuali.
Non
cercavano comodità, per Essi l’importante era “muoversi” e sentire l’ebbrezza
del vento sul proprio corpo.
Ubriacarsi di piacere, di sottigliezze
incantate………
inebriarsi di esili passioni represse,
di impalpabili certezze…….
stregati dal sorriso di un cuore
rinato, di sicurezze espugnate……………
volevano semplicemente essere lasciati
in pace di vivere la loro vita, anche nelle situazioni estreme, di grande
instabilità……….
volevano Pace.
Correre col vento raggelante della
notte
Correre col caldo asfissiante del
deserto
Col pericolo che incombe sulle spalle
Una morte violenta da mazza di sbirro
Una morte sospinta sotto una ruota
(1981)
Intanto
il gruppo di vagabondi con il quale mi ritrovavo durante la giornata cercava di
costruirsi momenti di amicizia in cui condividere esperienze di vagabondaggio e
storie di vita personali. Il mondo dal quale provenivo, quello di un piccolo
comune siciliano, mi aveva abituato a vivere i rapporti umani, specialmente tra
amicizie giovanili, in modo completo. Sconoscevamo la malizia, e la
condivisione, anche delle piccole storie sessuali vissute in comune, era
veramente la nostra forza.
Mi
ricordo quando per giorni interi Franco scompariva. Nessuno si meravigliava e
nessuno chiedeva in giro sue notizie. Al suo ritorno sembrava tutto normale,
rientrava nel gruppo a riprendere la sua immagine da leader e nessuno gli
chiedeva dove fosse stato.
L’Amicizia
non impone obblighi come non è soggetta a regole da rispettare. E’ nella
Libertà che Essa trova la massima espressione. Deve esploderci dentro come un
filo d’erba in un piazzale di cemento
quando con Gioia sfrutta la minima crepa per svettarsi verso la Luce.
Quante
volte sotto quel ponte un semplice sorriso è servito a riaccendere la
speranza…….e quante volte siamo stati felici quando qualcuno decideva di
ritornare a casa. Non mi sono mai sentito solo. Nel silenzio intorno ho sempre
avvertito un calore rinfrescante.
I
vagoni che ci ospitavano rimasero fermi per tutto il periodo del nostro
soggiorno. Tutte le notti, durante il tragitto, ci fermavamo a comprare delle
fette di anguria rosse molto rinfrescanti. A volte ci fermavamo a Piazza della
Repubblica per assistere, da lontano, a piccoli concerti organizzati dai
gestori dei bar per i propri clienti.
Un
momento di quiete in quella Roma così rumorosa.
Prendevamo
qualcosa da mangiare di fronte la stazione Termini e spesse volte mi ritrovai
da solo ad aspettare l’arrivo di un treno proveniente da Catania, più per
nostalgia che per curiosità.
Sentivo
la mancanza del mio dialetto. La presenza di un siciliano a Roma a quei tempi
era sempre una nota di novità. Ci siamo sempre spostati più per lavoro che per
viaggi di piacere. Il continuo bisogno di lavoro ha segnato l’essenza del
meridionale, lo ha ricoperto di una patina di nostalgia che difficilmente potrà
liberarsene.
Invogliavamo
gli altri a visitare i nostri alloggi, a sentirsi a casa loro e a ringraziare,
una volta tanto, il nostro Stato benefattore.
In
poco tempo quel luogo si riempì di vagabondi. La pacchia non durò molto.
Il
clamore di felicità che pervase l’intera comunità beatnik fu talmente rumoroso
che incuriosì le forze della legge.
Presero
informazioni e al momento opportuno ci fecero sloggiare riproponendoci la loro
forza e la loro autorità. Stavolta però non fuggimmo, sapevamo che al massimo
ci avrebbero preso i connotati sul luogo e poi lasciati andare.
Sfruttammo
gli ultimi residui di gioia dato che presto si sarebbe ripresentata la solita
fastidiosa ricerca di un nuovo luogo dove dormire.
Intanto
la vita continuava alla grande.
Ci
spostavamo in piccoli gruppi per evitare i pericoli dovuti alle orde dei
nazionalisti nostrani che in quel periodo impazzavano per le strade di Roma. Da
via Condotti a Piazza Navona o gironzolando verso Fontana Di Trevi, via del
Corso verso Montecitorio…..in queste zone
spaziava il nostro raggio d’azione.
Una
delle esperienze più curiose e per certi versi tristi che mi ricordo ci capitò
mentre giravamo per Roma in una delle solite vie invase da turisti, fu l’aver
avuto un rapporto ravvicinato con una famiglia di messicani, in particolar modo
con la moglie la quale, anziché ammirare le bellezze artistiche della città
osservava allibita le fattezze fisiche del nostro Mario. Si spinse con
insistenza con i propri occhi verso la cerniera dei suoi pantaloni
immaginandosi chissà quale furioso rapporto. Improvvisamente si mise a gridare
indicando col dito il basso ventre di Mario, colpita da un grosso rigonfiamento
proprio nelle zone dove risiede il pene.
Mario
evidentemente in quel preciso istante lo stava stimolando con il pensiero
facendolo rigonfiare in misura anormale. Quanto di più naturale possibile.
Il
clamore divampò quando l’ingrossamento del membro, grazie ad un paio di
pantaloni molto succinti, si manifestò in tutta la sua irruenza anche
all’esterno.
Quel
rigonfiamento non sfuggì agli occhi assatanati di quella messicana.
Gridava
così forte da richiamare l’attenzione della gente e specialmente del marito
che, sbigottito anche lui, fece un salto indietro ed indicò anche lui lo
spropositato ispessimento del pene di Mario. Un vigile si fece largo tra di noi
ed anche lui, incuriosito, ammirò sbigottito l’oggetto del contendere. Non
riuscì a trattenersi dal ridere e nello stesso tempo mostrare la faccia seria
della legge.
Mario
tentò di spiegare che la dilatazione spropositata del pene era dovuta ai
pantaloni attillati e alla pressione che esercitavano sul membro………la
messicana, nel frattempo, aveva smesso di gridare però rimaneva scossa dal
furente giavellotto che ancora sprizzava con prepotenza la propria forza.
Ci
allontanammo sconsolati dalla scena e mogi mogi, cercando di nascondere la
tristezza che ci era caduta addosso, guadagnammo quanta più distanza possibile
da quel luogo.
Continuammo
a scendere per via Condotti verso piazza Navona in silenzio come se volessimo
lavare l’onta subita. Mi ricordo che ci siamo bagnati nella fontana centrale
denudandoci completamente. A quell’ora tarda non vi era la legge a controllare
e ne libidinosi occhi di messicane assatanate a gridare per la visione dei
numerosi membri italiani che a quell’ora
di notte si trastullavano nelle acque della fontana del Nettuno. Scaricammo la
nostra amarezza dentro l’acqua, vi sguazzammo in piena consapevolezza
inneggiando un inno alla Libertà. Era come mondarsi di una sensazione di sporco
che ricopriva la nostra anima.
Oggi
mi viene semplicemente da ridere, ma allora mi sentii molto triste. Qualcuno di
noi pianse per la rabbia, altri si racchiusero nel loro mondo suggellando l’incontrovertibile
distanza che momento dopo momento ci separava dalla società dei benpensanti.
Sui
treni intanto aumentavano i clienti e la contestazione si tinteggiava di nuove
energie. Ognuna emanava una propria vibrazione e colorava di diversità l’intero
convoglio. Passeggeri sprovvisti di biglietti, non paganti, ogni notte
abbandonavano il proprio corpo su quelle comode poltrone…..e viaggiavano per il
resto della notte.
Qualcuno
usciva all’alba per evitare di essere scoperto, altri ci trastullavamo ancora
per qualche ora gustandoci l’ebbrezza rinfrescante di quel luogo.
Le
notizie sul mondo e sulle ultime contestazioni giovanili circolavano di bocca
in bocca. Ognuno portava le proprie novità…..chi ci parlava di grandi colorati
raduni beatnik ad Amsterdam a piazza Dam, chi cominciava a sognare l’India e ce
la raccontava traendo ispirazione dal sentito dire e dalle aspettative
vagheggiate dai suoi sogni, chi ci mostrava Istanbul come porta dell’oriente e
come luogo di incontri per scambiarsi sensazioni e visioni vissute lungo le
strade dell’oriente, chi, dal viso trasognante, si incantava al pensiero di
tirarsi qualche spinello alla marijuana, chi suonava e cantava Joan Baez
sognando di cavalcare una contestazione globale, chi ci parlava di luoghi
sicuri in cui dormire nei pressi di Villa Borghese………ognuno aveva qualcosa da
dire. Anche rimanendo in silenzio la loquacità del messaggio fluiva
ininterrottamente…..e tutti crescevamo in bellezza e fortezza.
Intanto
i giorni trascorrevano serenamente. Avevamo scoperto la questua come mezzo di
sussistenza proficuo e sopratutto privo di rischi. Anziché prendere qualche
dolce o qualche mela senza pagare, rischiando le ire dl proprietario,
preferivamo trascorrere qualche ora lungo via Nazionale, o nei dintorni di Piazza
di Spagna, a chiedere qualcosa alla gente. Trovavamo sempre qualcuno disposto a
sostenere la nostra avventura e poi, a volte, l’opportunità di incontrare
qualcuno con il quale scambiare qualche parola non mancava mai.
L’unica
abitudine che rimase in tutti noi era l’idea e il desiderio di fregare, ovunque
se ne presentasse l’occasione, il ricco……..colui che con disprezzo e freddezza
sfrutta l’ingenuità e i bisogni della povera gente. Ovunque ve ne stesse uno,
tentammo quasi sempre di fregarlo, anche se sapevamo che non era facile.
Fottere
un ricco o un potente non è cosa di tutti i giorni. Sono talmente legati a ciò
che possiedono che controllano con mille occhi. Anche se a volte sembrano
gentili o condiscendenti, nella loro mente rimane sempre l’intento di rubare
all’altro per arricchirsi sempre di più. Triste constatazione, ma purtroppo
l’elemento caratterizzante, per costoro, rimane il potere ed esso, sappiamo,
può ottenersi esclusivamente possedendo grandi somme di denaro così può
comprarsi tutto, anche la Libertà della gente.
Questuando
qua e là sorvolavo dall’alto la città eterna. Scoprivo l’animo della gente e il
respiro di una metropoli. Ogni giorno orde di turisti affamati di conoscenza
venivano scaricati dai treni alla stazione Termini. Io trascorrevo, a giorni
alterni, ore intere ad assistere a tutto questo frenetico andirivieni.
I
treni fischiavano, si arrestavano e improvvisamente le banchine adiacenti si
riempivano di moltitudini di corpi felici, stanchi e confusi.
La
grande città stava alle porte, il vuoto generato dalla “grandiosità”
rimpiccioliva le menti e i sogni dei nuovi arrivati.
Io
ammiravo tutto questo e mi sentivo “grande”, ormai padrone della realtà romana.
Singoli individui si mischiavano tra il fiume di gente che si riversava in via
Nazionale e si sentivano protetti……uno confuso con gli altri.
Li
individuavo con facilità. Mi ricordavo i miei primi giorni e la confusa paura
che mi strappava il cuore dal petto. Ragazzi indifesi, traboccanti di sogni,
con poche risorse in tasca, si lasciavano spingere dal flusso di
gente……ciondolando a bocca aperta.
Una
mattina sentimmo l’odore infestante di due poliziotti mentre defloravano la
nostra oasi. Qualcuno aveva parlato tanto e la voce di questo paradiso nel
centro di Roma era arrivata alle loro orecchie. Stavano controllando vagone per
vagone. Tra poco sarebbero arrivati in quello nostro…..quindi bisognava
sloggiare.
L’ennesima
fuga ci costrinse a rimetterci nuovamente sulla strada alla ricerca di un nuovo
spazio in cui dormire in serenità.
Stavolta
trovammo un villa abbandonata proprio nei pressi di villa Borghese, sommersa da
alberi secolari e da una fitta vegetazione da dove poteva ammirarsi dall’alto,
senza essere visti, la Roma delle chiese e dei tetti fino ad arrivare al
cupolone. Stava proprio inserita nel parco del Pincio, proprio sopra piazza del
Popolo confusa tra la folta vegetazione che negli anni l’aveva completamente
coperta.
Salendo
per la scalinata di Piazza di Spagna, proprio sotto la chiesa SS. Trinità dei
Monti, girando alla sua sinistra subito dopo qualche decina di metri, bastava
saltare il muretto per trovarsi in aperta campagna, fuori dalla confusione e
lontano dai rumori assordanti della città.
Un
lieve salto e ci si trovava sulla cima di un albero che ci permetteva l’accesso in un luogo sommerso dal verde
dentro il quale si snocciolavano viottoli dall’erba pestata che conducevano
alla nostra mitica villa. Vi erano diversi letti in mattoni sui quali avevamo
disteso i nostri sacchi a pelo. La grande porta rimaneva sempre aperta,
qualcuno l’aveva divelta per venderla in qualche mercatino delle pulci.
Il
luogo divenne il centro stanziale per tanti di noi, difatti potevamo
tranquillamente rimanere anche di giorno senza il rischio di essere disturbati.
Si fumava, si discuteva e si progettavano futuri viaggi in altre piazze
d’Europa per incontrare altri vagabondi come noi che vivevano la vita in
completa libertà.
Quell’estate
romana, tra spinelli sotto i ponti, tra fughe precipitose in concorrenza con la
polizia, tra comodi viaggianti letti, tra questue milionarie, sembrava
ripagarci per i fastidi continui che
avevamo subito.
Nel
fitto della vegetazione rimaneva ancora qualche residuo di furore borghese.
Qualche siepe ingentilita da mani esperte, ormai decaduta nell’antico caos
vegetale, sembrava svettare sopra tutte le altre forme intricate della natura
dove l’identità di una singola pianta si era confusa, o venne soprafatta, con
l’irruenza naturale di quel luogo.
Sembrava
tutto così intricato, eppure, quell’antico ordine “anarchico” insito nella
bellezza della Natura, prendeva sempre più spazio. Nessun intervento dell’Uomo,
da anni, in quel luogo, è più entrato a sconvolgerne la Sua armonia. Proprio
nel centro di Roma, a cento metri di Piazza di Spagna, di fronte Villa Borghese
e a pochi centinaia di metri da via Condotti la Natura si inorgogliva
liberamente sprizzando odori e colori senza alcun ritegno. Serviva a deliziare
i nostri incontri e ad allietare i nostri lunghi momenti di silenzio.
Una
musica Divina si alzava in cielo, e i nostri passi stanchi, attenti,
consapevoli di calpestare un suolo misterioso, pieno di storia, spingevano il
passo successivo con gentilezza per risvegliarlo alla presenza mentale e
all’Armonia di quel luogo.
Il
luogo si riempiva un giorno dopo l’altro. Non potevamo nasconderlo. La gioia
per aver trovato quella lussuosa dimora era incontenibile e non poteva
contenersi. Quella nostra improvvisa serenità, risaltava subito agli occhi
esperti di un vagabondo.
Non
eravamo stanchi e morti di sonno. Tutte le mattine sembravamo essere usciti da
una stanza di hotel dove, seppure striminzite, non mancavano le comodità.
Già
sin davanti l’uscio una brezza d’aria romana ci accarezzava l’intero corpo.
Qualcuno, mi ricordo, usciva completamente nudo e si stiracchiava alla luce
prodotta dal sole che, solamente in tarda mattinata, poteva riscaldarci con i
suoi raggi. Uscivamo alla chetichella, specialmente quando dovevamo salire
sull’albero per saltare sul muretto adiacente la strada. La legge era sempre in
agguato e noi in quegli anni, eravamo le loro prede predilette.
Scendevamo
dalla scalinata per andarci a lavare alla “barcaccia” e poi subito al bar per
consumare il primo cappuccino della giornata. Una buona colazione seguita da
una liberatoria pulizia degli intestini e poi……piano piano, senza dare
nell’occhio, rientravamo nelle nostre stanze.
Roma non è diversa da tutte le altri
grandi città del mondo. Sa come accogliere il vagabondo, ma sa anche come
sfrattarlo.
In
quei pochi luoghi dove ci incontravamo Roma era ormai abituata alla nostra
presenza, cercava di non interferire nella nostra vita. Solo quando Roma, in un
attimo di orgoglio nazionale, si sentiva “capitale” era costretta ad intervenire. Non erano le
sue borgate ad intromettersi nella nostra esistenza, esse lasciavano vivere in
pace, ma erano i suoi palazzi ministeriali, i suoi imbellettati borghesi e le
sue bigotte e timorate bizzoche a lucrare sulla nostra presenza.
Ogni
tanto speculavano su di noi per mettersi in vista loro.
Improvvisamente,
come se Roma per un momento fosse attraversata da un ondata di disprezzo verso
il “Diverso”, si inorgogliva della propria romanità e ci vomitava addosso tutto
quel marciume che tratteneva dentro di sé.
Evidentemente
la nostra solare “diversità” ogni tanto li scuoteva dalla loro becera
normalità……e ci davano addosso senza pietà.
Non
ho mai capito perché la polizia o la legge in genere, ci lasciava vivere in
pace e poi ogni tanto infieriva con odio e violenza su di noi caricandoci come
fossimo degli squadristi attrezzati di elmo e frustino.
Mi
riconoscevo diverso, fuori da certe regole, pronto a difendermi, ove richiesto,
anche con i denti, però fondamentalmente mi consideravo, e mi considero oggi
più che mai, una persona “pacifica”, che non cerca appigli per impiantare
plateali proteste.
Vivevo
e lasciavo vivere, questo era, allora, il mio motto.
Malgrado
tutto la vita sembrava scorrere felicemente, l’unica controversia l’ebbi con me
stesso e con l’altro sesso che, volutamente, per mia stupidità, dovuta a falsi
intellettualismi da piccoli borghesi, non riuscii ad avere grandi rapporti.
La
strada che percorrevo mi poneva fuori da qualunque lotta sociale o politica.
Stavo giorni interi sdraiato su quella scalinata a sognare il mio futuro e a
vivere con distacco il presente. A volte mi rintanavo dietro un cancelletto che
stava proprio in alto, alla fine della scalinata, sul lato destro salendo, per
consumare una pressante sega. Non riuscivo ad avere rapporti completi con le
ragazze. Pur avendone l’opportunità, ed anche il desiderio, non conclusi nulla.
Si era scioccamente inserita tra di noi l’idea di essere superiori alle brame
erotiche, di vivere il sesso con distacco per non decadere, tra di noi, nelle
solite manfrine da spacconi dove chi più “fotte” più conta.
Pur
smaniando per un rapporto sessuale, sceglievo di masturbarmi anziché declassarmi
in semplice borghese che vive solo per il sesso. Strana teoria, ma allora, mi
ricordo, mi obbligai con la volontà a non cadere in questa trappola. Ebbi
diversi rapporti con belle ragazze che frequentavano il nostro gruppo. Con
Claudia, una ragazza di colore romana, passavamo ore a baciarci e a toccarci,
alla fine di concreto non capitava nulla, l’unica cosa che, ero costretto poi a
fare, consisteva nel farmi una sega.
Non
volevo perdere, soprattutto agli occhi degli altri vagabondi, quel mio aspetto
di beatnik, figlio di una contestazione globale che condannava, a priori,
qualunque espressione di quella società.
Il
sesso senza Amore era da condannare, pensavo, mentre, plagiato da un orgoglio
rinunciatario, dentro di me soffrivo tremendamente.
Disimpegnandomi
dal vivere come viveva la società che condannavo o privandomi delle stesse
emozioni che turbavano gli altri, pensavo, avrei mantenuto integra la mia
dignità di vagabondo.
L’infantilismo
intellettuale e di appartenenza ha creato sempre grossi problemi.
Allora
credevo di non riconoscermi in nessuno schema, eppure oggi, a distanza di 40
anni riscontro una mia completa dipendenza dal ruolo di vagabondo che
ostinatamente e convintamene in quegli anni mi ero appioppato.
Non
è stato un errore dal quale pentirmi, ero troppo giovane e troppo sognatore per
non considerarmi in quel mio personaggio migliore degli altri. Era il mio
sogno.
Dal
‘63 la mia strada era già definita. Non so dove, ma avevo letto di Jack London
e del suo “La strada”, sapevo degli hobos e dei loro spostamenti avventurosi
sui treni e del loro odio per un lavoro imposto, dopo arrivò Kerouac con il suo
“Sulla Strada”, e poi venne Woody Guthrie con “Questa terra è la mia terra” e
poi arriva Dylan con il Suo folk graffiante e contestatario….arrivano tutti gli
altri, e così via di seguito arrivai anche io con i miei sogni e con le mie
corse sulle strade.
Da
li nacque il mio Amore per questo mondo.
Venivo
da lontano e mi tenevo stretto tutti i miei idoli perché grazie ad essi, ero
sicuro, che un giorno mi sarei sentito veramente libero. La loro forza mi era
entrata dentro, non sapevo vivere senza di loro e senza le loro storie.
Prima
di rincasare nei nostri appartamenti, la sera, di tanto in tanto, ci fermavamo
in un convento di monaci benedettini, proprio a Trinità dei Monti, a cenare.
Offrivano gratuitamente del cibo a tutti coloro che si presentavano ad una
determinata ora. Non chiedevano nulla, l’unica richiesta era quella di farci il
segno della croce e di sorbire, prima di iniziare la cena, qualche minuto di
lettura di brani della Bibbia.
Pochissime
volte sfruttai questa loro cordialità. Mi sentivo soffusamente in disagio.
Forse non ero pronto ad una contemplazione consapevole accanto all’essenziale,
mi sembrava tutto innaturale, in pieno contrasto con ciò che viveva oltre
quelle mura. Eppure quella pace doveva coinvolgermi, ammantarmi, dato che
qualche anno dopo anche io percorsi la via verso l’oriente per cercare la Pace
e la Libertà interiore…….eppure quella volta, almeno esternamente, non produsse
nulla di trascendentale.
Mi
sembrava tutto così scontato, come se fosse una scena da recitare per offuscare
crimini orrendi……..eppure il cibo era buono, nessuno ci chiedeva chi fossimo,
da dove venissimo, il semplice sorriso dei monaci già appagava la nostra sete
di Pace….vi era qualcosa però dentro di me che non riusciva ad abbandonarsi.
Forse era la presenza costante di un prete che tentava di convincerci della
bontà della chiesa o della magnificenza del vaticano che ci elargiva gratuitamente
quel cibo, forse perchè sentivo quel loro dare come un mezzo per attrarre gente
alla loro causa….fatto sta che pochissime volte entrai in quel santo luogo, a
differenza degli altri che ne approfittavano appena possibile.
Nelle
piazze del mondo già si vagheggiava un oriente mistico e liberatorio dove la
pace che cercavamo non era un luogo o un ideale per cui lottare, ma era
presente ovunque, bastava solamente abbandonarsi per viverla intensamente.
Tre
anni dopo, estate 1971, feci il pellegrinaggio in oriente come da buon
vagabondo. Non potevo mancare a quest’avventura. Quel viaggio mi permise di
trasvolare oltre la Coscienza, di ricondurmi al mio punto di partenza per
“farmi ritrovare” in una stradina indiana, accanto ad uno di quei templi dove
si recitava l’Amore per il Dio che ci vive dentro.
Allora
non Lo riconobbi…non mi riconobbi tale. Mi considerai ancora in cammino, però
verso la retta via che al momento giusto mi avrebbe risvegliato alle ombre che
ottundevano la mia mente.
Guru
e Sadhu itineranti invasero i miei sogni.
Il
Buddha, il Risvegliato, per lunghi anni mi scandì il Suo grande OM nel cuore e
nello Spirito fino a condurmi mano nella mano nel monastero di Pomaia “Lama
Tzong Khapa” dove in diversi anni trascorsi lunghi mesi a meditare.
L’anacronismo
immoto di quel luogo eccitava i nostri sensi. La sua tranquillità, la mancanza
di luci stridenti e di rumori assordanti, generava sensazioni di pace
innaturali. Tanti riuscirono persino a strappare qualche notte di sonno nelle
loro celle vivendo per qualche giorno cadenzati alle loro ore, ai loro ritmi
colmi di preghiere, di contemplazioni e di vibranti Amen che tanto avevano da
fare con l’Om orientale.
Alla
fine sono le vibrazioni a riunificare con l’Universo la spiritualità di un
luogo. Lo Spirito risponde al mantra vibrante perché si sente a casa propria.
Riconosce la vibrazione emessa simultaneamente dallo stomaco e dalla
passione……..si risveglia, risponde, apre la porta della Coscienza per
permettere un facile rientro…….dove si scioglie, si annulla e si confonde
nell’Assoluto.
Il
potere temporale in quel luogo, dove preghiera e lavoro scandivano il proprio
tempo in sincronico silenzio, sembrava inesistente. Solo qualche immagine
purpurea di papa o di vescovi risaltava alle pareti, ma non era motivo per
suscitare dinieghi mentali…….eravamo li per cenare, il resto calpestava altre
vie che in quegli anni proprio non mi interessavano.
Altri
giorni, preferibilmente di domenica quando il mercato era brulicante di merce e
di vita, invece ci recavamo tutti insieme a Porta Portese per sguazzare con gli
occhi e con i sogni in quel mondo di zaini, di borracce in alluminio e di
sacchi a pelo regolarmente usati da altri vagabondi che in un momento di
assoluta indigenza hanno scelto di vendere parte della loro vita.
Capisco
cosa vuol dire vendere uno zaino. E’ come svendere una parte dei propri sogni a
quella stessa società borghese dalla quale si cerca di fuggire……per avvenuta
sconfitta.
Zaini
appesi ad un chiodo dai colori sbiaditi, consunti, logorati dalle intemperie
del clima e dall’adrenalina di chi li portava in spalla, stavano lì ad
attendere un nuovo proprietario. Contrattavamo non solo sul prezzo,
principalmente volevamo sapere dal venditore se ne conosceva il proprietario.
Era molto importante sapere qualcosa della sua vita, conoscere la vita dello
zaino, quali luoghi ha conosciuto, quali esperienze ha vissuto e come è stato
trattato……..l’energia contenuta in uno zaino contiene l’immagine di chi l’ha
usato per ultimo. In una sorta di continuità implicita lo zaino preferisce
continuare a camminare sulla medesima strada sulla quale camminava prima.
Vi
erano borracce in alluminio usate dai militari, e vi erano tanti sacco a pelo
accatastati l’uno sull’altro, di colori diversi, smunti e rattoppati da mani
affrettate.
Chissà,
pensavo, quale corpo aveva riscaldato quello verde….e quello rosso, era forse
appartenuto a un grande vagabondo!!? Vendere un sacco a pelo è come liquidare
il proprio rifugio.
Perché
vendere un sacco a pelo?? Posso capire uno zaino perché è logorato dalle
intemperie della strada, distrutto, ma vendere un sacco a pelo ancora
“funzionante”, mi sembra una cosa da pazzi.
Una sconfitta!!! Forse.
Un ripensamento….speriamo di no.
Lasciarsi dietro la propria casa sicura
per cosa!!!
Per qualcosa di meglio….ma cosa!!
(1981)
Quella
volta non comprai nulla. Possedevo qualche coperta militare raccattata chissà
dove, quindi potevo proteggermi dal freddo e nascondermi il viso quando volevo
stare lontano dal mondo…….ed ogni tanto mi capitava, specialmente quando mi
sentivo solo, disperato, triste, quando mi chiedevo cosa stessi facendo in quel
luogo….e non so quante volte mi capitò in quel periodo.
Quando
avvertivo il bisogno di stare da solo, di rifugiarmi in un luogo tranquillo…in
quel momento la mia coperta rappresentava la mia ancora di salvezza….la
stendevo per lungo, mi ci rannicchiavo sotto, ovunque mi trovassi….e subito mi
sentivo “solo”, libero, disposto a
rivedermi, ad osservarmi. Mi nascondevo alla realtà e mi trasferivo in quella
dei miei sogni, lì mi ritrovavo a fantasticare mentre vivevo momenti di Gioia e
di assoluta condivisione con l’intera Umanità. Trasvolavo con facilità nel
mondo in cui desideravo trovarmi in quel momento……e mi sentivo libero.
Spesse
volte mi trovavo a pensare la mia Pina che già in quegli anni conoscevo e ne
ero profondamente innamorato. La sfioravo con un dolce pensiero mentre
l’attiravo a me per toccarla con un bacio sulla guancia.
Allora
il nostro rapporto era veramente impossibile. Potevamo solamente guardarci da
lontano, quando era possibile, ed aspettare il carnevale per poterci stringere.
La Sua ritrosia nel cedere alle mie pressanti richieste e la Sua timidezza mi
costringevano a vivere continuamente con Lei nella mente. Ne ero già innamorato,
ma il desiderio di stringerLa e di toccarLa era molto pressante. Un Amore così
irraggiungibile mi deprimeva, la mentalità bigotta e paesana di allora ostruiva
le strade che portavano ad un libero e gioioso rapporto con la persona che si
amava. Regole, ostacoli, formalismi, pregiudizi, imposizioni, chiacchiere
indecenti, forme di ipocrisie sociali e ecclesiali………………un mondo di intralci
lastricava la vita di noi ragazzi.
Ecco
le insoddisfazioni, le drammatiche “fuitine” per spezzare le catene sociali…..i
precoci matrimoni senza Amore, per colmare un vuoto o per calmare le sottovoci
di un paese che pretendeva “il giusto rimedio”. Genitori “non liberi”,
sottomessi alle voci del paese, ai
mormorii di una società bigotta, meschina e discriminatoria.
………………..ecco
le fughe di tanti giovani, questo bisogno di Libertà, di autonomia, di Amare
liberamente e senza falsi impedimenti…….avevamo bisogno di aria pulita,
volevamo sentire l’ebbrezza di un Amore vissuto pubblicamente, non di nascosto
o sottecchi dietro qualche colonna di una chiesa o nel buio di una stradella
non illuminata.
Libertà….Libertà….Libertà……seguendo
questo istinto naturale mi incanalai sulla via dei miei vagabondi e, mi
ricordo, in quegli anni vissi sulle strade lunghi momenti di gioia e sulle
piazze di un intera Europa attimi di indicibile Libertà.
Solo
qualche giorno prima di lasciare in autostop Roma per Firenze, mi ricordo
comprai una coperta militare.
L’anno
prossimo invece, nel mese di giugno, prima di partire per un lungo viaggio in
autostop in Europa (Grecia, Turchia, Bulgaria, Jugoslavia, Ungheria, Austria,
Italia del nord) acquistai il mio primo sacco a pelo di colore verde da un lato
e azzurro dall’altro lato. In piume d’oca, leggerissimo, con una lunga cerniera
in mezzo che ne permetteva l’estensione completa trasformandolo in una comoda
coperta per due persone…..difatti con Pina negli anni a venire lo usammo
tantissimo per i nostri viaggi, ed Alice, ancora oggi, dopo 40 anni,
rimpinguandolo continuamente di piume e ricucendone gli strappi, continua ad
usarlo come coperta sul proprio letto.
Un
sacco a pelo avventuroso, coraggioso, caloroso e indistruttibile.
Fui
felice, mi ricordo benissimo, e fu felice anche Lui. Mi si offrì subito appena
intuì quale corpo avrebbe accolto e quali avventure avrebbe vissuto.
L’ho
disteso sulla neve del Tarvisio mentre attraversavo a piedi il confine
austriaco, dentro cimiteri jugoslavi per proteggermi da pericolosi delinquenti,
sulle sabbia del Sahara nel Sahel mentre mi spostavo con una guida Tuareg, sui
tetti delle macchina per proteggermi dal freddo marmo, a piazza Dam mentre
cantavo la rivoluzione…..mi ci sono infilato nudo, vestito, con le scarpe per
tenermi pronto alla fuga, in corridoi di treni affollati incurante della gente
che mi transitava addosso…..mi è servito da accappatoio, vi ho fatto all’Amore,
l’ho usato da cuscino sui treni indiani, sui marciapiedi di mezza Europa, sotto
le gallerie di Amsterdam e di Milano, l’ho usato per proteggermi dalle
pulci………….l’ultima avventura glielo fatta vivere nell’81 in Egitto, dopo è
andato in pensione. Ancora oggi ci gironzola intorno ed è stato rivestito a
nuovo.
Ci
sono persone che non riescono a dormire lontano dal proprio giaciglio, un
vagabondo non saprebbe vivere sempre sullo stesso letto. Si sente ovunque a
casa propria, la provvisorietà lo mantiene sempre in fibrillazione. La
rassegnazione lo inquieta.
L’acquisto
dello zaino invece procedeva su altre vie. Guardavamo la solidità, il
cosmopolitismo, specialmente se vi erano degli adesivi che raffiguravano altre
nazioni o scritte contestatarie quali “…non faccio la guerra ma faccio
l’Amore…….”, oppure cercavamo la scritta “….libertà…..” che sapeva di
contestazione, di rivoluzione e di vagabondaggio. Guardavamo se vi erano nomi
di città, borchie militari per ridicolarizzare l’arma, se vi erano catene
legate tipo quelle per tirare lo sciacquone in bagno, cimeli qualsiasi per
fantasticare un po’......davamo allo zaino un aspetto umano con il quale
discutevamo senza alcuna inibizione.
Mi
ricordo in tutti quegli anni sessanta in cui lo usai per vagabondare per la
vecchia Europa, mentre attendevo sulla strada lo stop di una macchina disposta
a “portarmi oltre”, quante ore passavo ad osservarlo. Era il mio compagno
inseparabile durante le lunghe ore di attesa ad attendere un passaggio,
conteneva poche cose, ma essenziali per sopravvivere “alla grande” i lunghi
momenti di pausa forzata sulla strada. Conteneva penna e rubrica, qualche pezzo
di pane duro, borraccia in alluminio, coltello, cartina stradale sempre
spalancata sulla parte di mondo in cui mi trovavo al momento, sbrindellata e
spiegazzata proprio perché, spesse volte, capitava che mentre la ammiravo nella
sua massima estensione, qualche macchina si fermava ed allora la avvoltolavo in
un pugno per inserirla nello zaino,………e via, non potevo fare aspettare la
macchina, poteva andarsene lasciandomi a bocca aperta.
In
quel mercato vi erano in vendita un infinità di altre cose tutte collegate col
mondo dei viaggiatori con zaino in spalla. Anelli che raffiguravano un viso
scheletrito con un berretto militare in testa con la stella a cinque punti
cucita di fronte, scarponi militari rimessi in vendita con pochi soldi, spilli
e stemma inneggianti le ultime battaglie coloniali, calzettoni verde cacchina
di spessa lana e vecchi eskimo nostalgicamente rivoluzionari…………..i nuovi
arrivi attiravano l’attenzione di tutti, specialmente quei pellicciotti turchi
bianchi o avana contornati da lana caprina erano le attrazioni principali. Non
costavano molto e tenevano caldi, però, per i miei gusti, che amo viaggiare con
poco peso sulle spalle, erano da scartare. Troppo voluminosi e troppo
appariscenti. Amavo vivere in silenzio e
in disparte e indossare quell’indumento voleva dire espormi troppo, non passare
inosservato ovunque andassi, e questo era contro la mia natura.
Gli
altri si contornavano di cimeli e simboli molto vistosi.
Anche
questo è un modo per cantare la propria rivoluzione. Contestare con le parole
può essere maggiormente incisivo se ad esse le si affiancano anche
atteggiamenti esteriori pertinenti. La rivoluzione sa di camminare in un mondo
di persone differenti, anche se la forza intellettuale spinge al risveglio e
alla presa di Coscienza con i loro discorsi, ci vuole anche, e soprattutto, la
parte pratica. Ci vogliono i poveri, i disoccupati veri, che soffrono la fame,
che subiscono lo sfruttamento un giorno dopo l’altro, che la rivoluzione parta
da loro e non si costruisca a tavolino possibilmente da rifuggiati politici che
vivono in un'altra nazione
Non
si costruisce un nuovo mondo basandosi solamente su parole pompose, ma questi
concetti devono camminare con i propri piedi nella realtà………….e questa realtà,
questo popolo di “affamati”, proprio perché indigenti cronici, non rispondeva ai richiami della rivoluzione,
era molto flessibile, nel senso che si vendeva a chiunque per un pezzo di
pane……………e il “governante e il padrone” l’hanno sempre saputo.
La
rivoluzione era totale, non solo ideologica, ma principalmente di costume, di
stravolgimento delle false buone creanze, dell’ipocrisia e dei finti saluti
sostenuti da “amichevoli” pacche sulle spalle.
Sbeffeggiare
l’ultimo grido di moda con i nostri “incoerenti” tipi di
indumenti….disarmonici, sconclusionati e senza il minimo accostamento di tinte.
Sgrammaticare il consolidato, il falso bello…….sezionare i fasulli cristi
innalzati a modelli irreprensibili di vita.
Cultura
sociale asservita al potere, religioni noleggiate dalla storia e ammodernate ad
uopo per accomodare apparenti incomprensioni……………….questo mondo così strano,
fittizio, non vero, che affossava gli spiriti liberi cercando di assumerli alle
proprie idee.
Scappavamo
da tutto questo………..anche al mercato ci tenevamo lontani dalle bancherelle che
esponevano le ultime frenesie della moda. Vi era più ordine, più decoro, più
linearità…….vestiti ben piegati con la riga sottolineata ben bene, cinture con
fibbie dorate o di osso di foca, maglioncini di ottimo cotone a giro di collo o
quadrettati in perfetta armonia cromatica, scarpe a punta felpate di ottima
pelle traforate per mantenere sicuro e al fresco il bel piedino, camicie dal
colletto inamidato, unica tinta, cravatte coloratissime dai disegni floreali,
fermacravatta, slip o “mutande da sbarco” in seta per mantenere profumato il
sesso, profumi misteriosi, rossetti cancerogeni testati sulla pelle di animali,
gonne lunghe a campane e mini gonne ridotte allo stremo, cappelli dalle tese
rigide e larghe….mutande in pizzo, foulard
floreali, bracciali, pellicce di cadaveri, volpi bianche della
Groenlandia……….sceglievano più per classi sociali che per bellezza o per
comodità. Basta pagare un po’ più cara la merce e subito ci si
sentiva……migliori.
Dopo
un po’ ci rintanavamo nella nostra scalinata. Ci sentivamo protetti e il
semplice stare sdraiati senza fare nulla, ad osservare la massa di gente che in
tutti i momenti transitava da quel luogo, colmava di meraviglie la nostra
mente.
Riuscivo
a stare in quel luogo senza muovermi anche per interi giorni.
Il
nuovo che navigava in quegli anni mi transitava sotto gli occhi, non avevo
bisogno di spostarmi. I racconti di luoghi lontani gremiti di vagabondi,
sublimavano la mia permanenza su quella scalinata.
Pur
rimanendo fermo………………mi sentivo permeato da un movimento inarrestabile. Il
movimento impresso dalle idee che in quegli anni circolavano liberamente di
bocca in bocca e le avventure che ascoltavo mi facevano volare molto in alto.
Troppi
attimi di vita vissuta all’insegna della contestazione e troppi momenti di
gioia ritrovata lungo le strade di un mondo in fermento mi rintronavano
continuamente nella mente. Allora sconoscevo la noia. Quell’impegno nel sociale
al quale ho dato tanta importanza e per il quale mi sono ritrovato a
vagabondare sperando di vivere la contestazione in qualche università insieme a
tanti altri ragazzi, in quel luogo, mi sembrava superato. Sotto l’emblema di
quel partito dietro il quale sfogavo la mia rabbia, scopersi che fermentava lo
stesso potere dal quale ero fuggito.
La
scalinata era diventata un Maestro sottile, un saggio, che mi suggeriva nuovi
modi per contestare la società.
La
coscienza di quella gradinata mi lucidava la mente un giorno dopo l’altro. Le
copiose scorie emesse da una società in declino, depositate sul mio
cervello, annebbiavano il risveglio
della mia coscienza. Grazie ai lunghi giorni trascorsi a bivaccare in quel
centro del mondo, mi rendevo conto che la contestazione doveva avanzarmi prima
dentro, mi doveva scuotere sin dalle fondamenta, ridonarmi al Divino che mi
viveva dentro il quale avevo trascurato per lungo tempo per dedicarmi a lotte
sociali manovrate, con molta finitezza, dal sistema vigente.
I
partiti, anche quelli apparentemente rivoluzionari, vivevano in un ammucchiata
sfacciata. Sembravano contestarsi l’un l’altro, con posizioni inavvicinabili,
ma alla fine, quando si trattava di fare il grande salto aldilà del “certo”,
rimanevano tutti uniti. Si confondevano rispettivamente l’uno dentro l’altro in
un formalismo bigotto e di maniera, pur di non scuotere la falsa morale,
dettata dalla chiesa e dalle varie confraternite borghesi.
Io
contestavo rimanendo seduto su quei gradini da dove mi sfilava sotto gli occhi
l’intero pianeta. Non aspettavo nulla di definito. Stavo li ad osservare, ad
ascoltare musica e a gioire di quella forma di apatia in fermento che mi stava
trasportando in una nuova forma di contestazione non catalogabile dalle forze
dominanti e quindi dagli sbocchi imprevedibili. Contestavo in silenzio, forte
del mio esistere fuori dagli schemi. Eravamo dei mistici che ondeggiavano
intorno a sé stessi.
Non
ci interessava nulla che venisse da fuori. L’attenzione non era rivolta alle
cose che potessero arrivarci da fuori. Eravamo pieni di noi stessi e…………quella
Libertà per la quale ognuno di noi aveva affrontato strade pericolose………su
quella scalinata la sentivamo fluirci dentro, colorando di sè il mondo
circostante.
Momenti di gioia trasognante
Momenti di fuga dalla realtà
Vivevamo ognuno nel nostro mondo.
Ogni beatnik, nel proprio silenzio,
trascendeva la realtà. Non le dava retta. Lasciava che lo avvolgesse, che lo
triturasse……….ma non si sentiva oppresso da essa.
Un vagabondo è un mondo a sè…..non si
lascia coinvolgere.
Spazia sempre dentro se stesso perché
sa che la verità risiede dentro di Lui.
Acquattati dentro di noi, affrontavamo
la vita con dignità.
Sopravvivevamo ai mali della società
proteggendoci con le nostre chitarre, cantando le nostre poesie dove si
vagheggiavano mondi migliori, più liberi e meno freddi.
Mentre imperversava la contestazione
globale……………….noi cantavamo.
Orgogliosi di essere diversi………….eravamo
felici.
Ehi Franco! Non
ti sei stancato ancora di vivere questo tipo di vita?!
Mi sembra
che quel nuovo si stia trasformando in abitudine.
- Nuccio!!!
Non rendere problematico il fantastico momento che stiamo vivendo.
Crei inutili problemi e distogli la tua attenzione
dalla bellezza del momento presente.
Vivi come sai vivere……………non analizzare con la mente
l’essenza del momento. Quando arriva l’ora del cambiamento, stai certo, il
corpo stesso ti avvertirà…………e allora sarà il momento di cambiare.
Cambiare luogo………spostarsi in un'altra piazza per
seguire quell’anelito interiore che ci consiglia di andare via.
L’ora di riprendere lo zaino arriva quanto meno ce
l’aspettiamo.
Si, si…bisogna
che si cambi.
Ma domani il frutto di questo cambiamento ritornerà
ad essere avariato….
………e allora!!!
Sarai sempre in tempo a riprendere lo zaino e andare via.
L’importante che il movimento non diventi prassi, non
si consolidi e non cada tra le grinfie della società cosiddetta civile.
Chi lo ha detto che il “nuovo” deve per forza
tramutarsi in “vecchio”! Non dipende forse da noi mantenere sempre fresco
l’aroma di un fiore trasportandolo dentro di noi??
E’ la mente che dobbiamo rivedere,
caro Nuccio. Gioire delle cose del mondo,
senza pensare alla rinuncia. Questo è
il percorso sul quale camminare.
A
volte stavamo intere ore a discutere.
Franco
integrava perfettamente l’aspetto filosofico ed esistenzialista all’immagine di
un uomo radicato completamente nella realtà. Un uomo fatto di carne ed ossa,
debole e presuntuoso, apatico e impegnato, materialista e mistico…………..l’unico
aspetto che non gli riscontravo era quello dell’intellettuale. Non riusciva ad
esserlo, anche se la sua cultura sembrava essere immensa.
Un vagabondo non riesce a distaccarsi
dalla realtà.
Sa che essa è l’unica sua fonte di
sostentamento, anche se poi è il primo a tirarsi fuori appena avverte il peso
dell’assuefazione.
La usa, vi si muove con una certa
destrezza…………..ma non si sente una sua preda.
La Libertà rimane l’unica via maestra,
da perseguire ovunque e comunque.
Mentre
i giorni trascorrevano felicemente, il mio aspetto fisico si rinnovava. Non
sembrava più quello di un normale studente occasionalmente vagabondo, ma si
integrava con l’essenza stessa di quel vagabondo che volevo a tutti i costi
sembrare.
Acquistavo
più coraggio. Anche se il mio balbettare mi limitava nell’esprimere compiutamente
le mie idee sul movimento beatnik, il mio atteggiamento ne stava incarnando
assolutamente l’essenza stessa del vagabondo senza fissa dimora.
Ero
fiero di me stesso.
Sentivo
fluire il mio futuro dentro di me.
Mi
osservavo mentre percorrevo le strade del mondo spinto dal desiderio di
conoscere e sostenuto dal bisogno di scoprirmi.
Ormai la villetta abbandonata,
nascosta tra gli alberi del Pincio, era diventata il nostro rifugio. Non solo
di notte, ma anche di giorno la usavamo
per ritirarci in silenzio e schiacciare un pisolino. Nessuno ne reclamava la
proprietà. Era abbandonata ormai da qualche anno e per noi vagabondi
rappresentava un isola che galleggiava tra i marosi oscuri della città.
Spesse
volte di sera mi toccava percorrere la strada da solo perché i miei amici erano
a girovagare per le vie di Roma. Salivo la scalinata, svoltavo a sinistra e
dopo poche decine di metri saltavo il muretto e, servendomi del solito albero
sottostante, mi lasciavo scivolare tra il groviglio di piante fino all’androne
che mi permetteva di accedere alla villa.
Loro,
i miei amici, preferivano scorazzare per la città. Avevano intrecciato una
strana rete di impegni che non gli permettevano di rientrare mai prima che si
facesse l’alba. Io non venivo coinvolto in queste loro scorribande. Mi dicevano
che era meglio non andare con loro, presto mi avrebbero raccontato delle loro
avventure notturne e, forse, solo allora potevano portarmi con loro.
Per adesso, mi
diceva Mario, è meglio che tu rimanga al sicuro………desideriamo
proteggerti dall’azzardata vita che stiamo conducendo
in questo periodo.
Solo
dopo venni a sapere, in parte, quali avventurose storie vivevano in quelle
notti sfrenate. Rivaleggiavano con la legge. Si spostavano in luoghi conosciuti
per racimolare qualcosa per tutti noi vagabondi. Sapevano di posti dove con
molta facilità si riusciva a raggranellare qualche lira………….e non si lasciavano
sfuggire l’occasione.
Prelevavano
del denaro di nascosto a chi ne possedeva tanto.
Erano
fieri di queste operazioni notturne.
Mario
e Franco, da prodigiosi vagabondi, sapevano come regalarsi momenti frizzanti
per non sentirsi inutili. Riempivano l’avventura romana con azioni alla Robin
Nood.
Anche
io correvo durante la notte con i miei pensieri. Aspettavo il bacio della bella
sconosciuta americana……………ma non eravamo più sotto il ponte. Erano trascorse
diverse settimane da quando si stava sotto quel ponte romano, adesso eravamo
passati ad una classe superiore. Avevamo più stelle e ci sentivamo più ricchi.
Franco,
ricordo che in quel periodo era dimagrito di molto. Le corse che ogni notte
ingaggiava con la polizia, lo rendevano ansioso, pensieroso. Non riusciva più a
mangiare con serenità come prima. Il tempo gli veniva misurato dalla
risoluzione dei tanti problemi che aveva. Chissà se era ricercato dalla legge,
pensavo. Lui non lasciava trapelare nulla, l’unica richiesta d’aiuto la
lanciava il suo corpo, mostrandosi smagrito. Era la sua campana della
consapevolezza che cercava di rintuzzare la nostra attenzione.
Impossibile
fermarlo.
Un vagabondo,
diceva, non può accettare limitazioni. Qualunque sua azione non è mossa da
obblighi sociali o da doveri verso gli altri vagabondi. Sa che è la cosa più
sana da fare in quel momento………………..e agisce.
Non bisogna dimenticare che il soggiorno romano, per
noi vagabondi, era un esigenza del Corpo e dello Spirito. Bisognava renderla
spregiudicatamente comoda e serena…………….e se non vi era da mangiare per tutti e
un caldo rifugio dove ritrovarsi la notte, non sarebbe stata un’esperienza da
ricordare con gioia.
Per
questo motivo, tutte le notti, assieme a Mario, sublimava il rito del
procacciatore di cibo ad ogni costo. Saltavano muri, prendevano sigarette per
tutti, trafugavano dolci da pasticcerie mattutine, pisciavano dietro le porte
dei borghesi…………………e si bagnavano senza alcun ritegno nelle vasche romane per
festeggiare la loro libertà.
Le
primi luci dell’alba li trovavano sfiancati e ansimanti. Tutte quelle corse li
consumavano fisicamente.
Io
aspettavo in silenzio. Cercavo di serrare gli occhi, ma i pensieri mi
conducevano sempre verso di loro. Li vedevo mentre con passi delicati si
introducevano in ambienti “decorosi” per prendere del cibo o un pugno di monete
da condividere con noi. Erano veramente dei “grandi”. Rappresentavano tutti noi
e il movimento beatnik romano gli era molto riconoscente.
Due
piccoli eroi in un mondo confuso.
Loro
si che avevano le idee chiare, sapevano cosa fare anche in situazioni
vacillanti. Sapevano che i soldi servivano per continuare a vivere senza
limiti…………e non ce li facevano mancare mai.
Non
riuscivo a chiudere occhio con serenità. Li aspettavo fino ad una certa ora e
poi mi lasciavo prendere dal sonno. Spesse volte non rientravano affatto, ed
era un tormento. Rivoltavo tutti i sacchi a pelo ma niente da fare. Rimuovevo
le montagne di coperte e spostavo i mucchi di cartone ammonticchiati in un
angolo del salone, ma nessuno dei due era ancora rientrato. Nessuno sapeva dove
fossero andati a finire.
Mi
alzavo ciondolando e mi recavo nella scalinata sperando di vederli spuntare da
dietro un angolo.
L’attesa
a volte si prolungava fino a tarda mattinata, se non addirittura per giorni
interi. Di solito non mancavano mai all’appuntamento. Pur morti di sonno e
stanchi da morire, barcollando, con le labbra screpolate e con il viso smunto
non si lasciavano attendere a lungo. Salivano l’intera scalinata dal lato
destro e alla terza rampa, dove di solito ci riunivamo, si lasciavano cadere
per terra morti di sonno e drammaticamente stanchi.
Io
vegliavo sul loro sonno.
La
notte brava aveva appena abbandonato sul campo due loro prodi guerrieri.
Un vagabondo non abbandona mai l’altro
vagabondo.
Guarda oltre l’amicizia formale e gli
sta accanto con devozione.
Pur
avendo un buco allo stomaco che reclamava, gli rimanevo accanto fino a quando
non si rimettevano in movimento. Al loro risveglio ci saremmo spostati in
qualche locanda per consumare un pasto “lautamente” meritato.
Quella
mattina non chiedevamo denaro alla gente.
Non
era tanto facile, almeno per me, chiedere aiuto a persone sconosciute,
purtroppo se volevo sostenere la mia avventura ero costretto a farlo.
Se
avessi chiesto del denaro ai miei genitori sicuramente mi avrebbero inviato
qualcosa, ma preferivo non farmi sentire. Per tutto il mio soggiorno romano non
ebbero alcuna mia notizia. Capivo la loro sofferenza, ma, ero un ragazzo
ammaliato dell’esperienza che stavo vivendo e non riuscivo a calarmi nella
realtà di due genitori che non hanno notizie del figlio per lunghi mesi.
Stavo
vivendo la mia avventura ed essa non contemplava, almeno in quel periodo,
alcuna debolezza da parte mia.
Spesse
volte volevo spaccare la faccia a qualcuno per il modo come mi trattava.
Non
sono mai stato un violento, però la rabbia accumulata, dovuta all’impotenza che
si vive nel non riuscire a cambiare la realtà, mi spingeva a rispondere in modo
furioso. In diversi momenti, sfiduciato dai rapporti con la gente, ero tentato
di smetterla con quel tipo di vita e di rientrare a casa, però………………rinviavo
sempre tutto a dopo. Mi dicevo che ancora non era il momento e che l’avventura
che stavo vivendo non bisognava interromperla.
Il
mio Corpo ancora non si era stancato. Sarebbe stato Lui a decidere quando e
come rientrare in Sicilia. La Sua saggezza mi avrebbe spinto al cambiamento,
per adesso era più giusto continuare a vagabondare.
L’ansia di vedere dietro quella curva
L’incertezza di trovare chi si cerca
L’instabilità delle cose certe
La noia che matura dalle visioni
ripetitive
La convinzione di volere, di riuscire a
sapere cosa c’è aldilà
La corsa per superare l’ultima
frontiera
Sono attimi di vita……….
………indimenticabili
(1981)
L’anno
dopo, estate 1969, con Pino varcai la mia prima frontiera.
Da
Brindisi ad Atene in nave attraversando il mitico stretto di Corinto. Anche
allora mi spostavo in autostop e sfruttavo ogni buona occasione per chiedere
qualcosa.
Per
viaggiare più spediti con Pino ci spostavamo da soli dandoci appuntamento alla prossima
città. Spesse volte ci incontravamo lungo la strada mentre aspettavamo un passaggio o dentro qualche
stazione mentre ci riparavamo dal freddo.
L’unica
cosa di quegli anni, che non dimenticherò mai, sarà l’amicizia, oltre ogni
limite, che ci ha dimostrato la “Strada”.
Mai
ci ha lasciato in brutte acque. E’ sempre stata allegramente presente, con i
suoi colori e con la sua vitalità, durante i nostri spostamenti. Ci ha protetti
ovunque ci trovassimo e in qualunque situazione. Per questo Le sarò eternamente
grato per come mi ha custodito e per l’insegnamento che mi ha donato.
In
quegli anni il chiedere era un modo per mantenere un contatto continuo con la
realtà. Ci guardavamo negli occhi scambiandoci informazioni sottili. L’etere
era pieno di messaggi e di insegnamenti, per captarli bisognava entrare in
contatto diretto con l’altro. La questua era un buon veicolo per diversi
motivi…innanzitutto ci permetteva di continuare il viaggio, e poi, ci metteva
nelle condizioni di conoscere meglio l’uomo anche sotto questo aspetto.
Negli
anni a venire, almeno fino a quando non iniziai a viaggiare con Pina, questa
forma di sostentamento la usai quasi sempre.
Fortunatamente
la Terra è un vero paradiso. E’ tutto così ben congegnato e predisposto per
essere utilizzato al momento opportuno, che tutte le volte che abbiamo bisogno
di qualcosa, non si fa attendere. La fortuna ci cammina sempre accanto, non ci
lascia mai scoperti e soli.
Il
nostro Corpo e la Terra sulla quale viviamo e dalla quale proveniamo, si muovono
entrambi in perfetta Unità. L’uno vive nell’altro, anche se ognuno
rispettivamente “sembra” avere una vita propria………………..ma non è così. Entrambi
vivono l’uno dentro altro, anche se apparentemente sembrano due realtà
differenti.
L’apparente
serenità che regnava in quella scalinata ritmava il battito dei nostri cuori.
Da un momento all’altro ci aspettavamo la solita retata della polizia e i
soliti interrogatori.
Aumentavamo
ogni giorno, e dai tipi strani che andavano ad aggiungersi al gruppo capivamo
quanta eterogeneità esiste tra di noi.
Un vagabondo non ha rivali…..nella
similitudine
E’ talmente unico da creare un proprio
stile anche quando si muove
………………..difatti
ogni beatnik che bivaccava in quella scalinata si riconosceva per una propria
caratteristica. Fuggivamo dalla società proprio per non perderci
nell’uniformità della vita………….e delle scelte.
Franco! Ti
ricordi quel giorno quando sfuggimmo alla polizia e per salvarci ci rifugiammo
in quel negozio?
Per un attimo mi è sembrato di trovarmi in un mondo
più umano, ed ho sentito un grande calore intorno. Nessuno ci tradì. Nessuno
avvertì la polizia.
Mi sentii felice e volevo abbracciare tutti……..
Nuccio!! Anche
io ho avvertito dentro qualcosa di simile, però dobbiamo stare
attenti a non lasciarci abbindolare dai sentimenti.
Essi a volte vengono soggiogati dalla mente, la quale, sfruttando l’ebbrezza
della vittoria, cerca di riportarci tra le grinfie dei “governanti”.
Siamo divisi da immensi blocchi fisici e psichici. I
rapporti a perdere che abbiamo avuto con la società ci hanno spinti a crearci
un nostro mondo, dove vivere sembra essere più facile e più felice……..malgrado
tutto la società non pensa di trascurarci. Ha bisogno di noi per rivalutare la
loro “normalità”. Sanno che grazie a noi, grazie alle nostre continue
ribellioni verso la loro falsa morale, essi si rigenerano e si fortificano
nell’odio che nutrono verso il “diverso”.
Ma non possono fare a meno di noi, ricordalo.
Serviamo da deposito alle scorie negative che essi
producono con la loro stupidità ed arroganza.
……………però è bello illudersi.
Quel giorno anche io mi illusi. Ebbi fiducia in quel
silenzio protettivo che si era creato intorno a noi. Vidi per un attimo le
barriere crollare e un grande sorriso dentro di me mi visualizzò un nuovo mondo
possibile……pieno di abbracci e di sorrisi.
Quel
posto lo conosco.
Quanti
luoghi debbo scoprire ancora sulla Terra!!!!
Un Uomo che
muore nel Sahara non distoglie nessuno….
Un Uomo che
muore alle Laccadive non distoglie per niente.
Un Uomo
presidente…..distoglie.
La morte di
un papa….crea spettacolo.
La fine in
silenzio di un indio sulle Ande rimane nel silenzio.
Solo chi
gli vive accanto………….viene distolto.
Il mondo
Gli crolla addosso…..….la vita stessa sembra finire.
………..ma
continua.
Continua
tra le mura di casa,
continua
tra la gente infastidita dal suo dolore.
………continua
tra il trambusto colorato di un papa….
mentre
cantano le sue glorie, parlano di lui e della sua chiesa.
………..mentre
gli altri muoiono di fame.
Fuggiamo
via da questi idoli
Lasciamoli
stare nei loro scranni……….
……e non
lasciamoci distogliere.
La vita
continua………………
(1981)
-
Hai visto Mario in questi giorni?!
E’ da un po’ che non lo vedo gironzolare con te.
E’ partito!! Sta male!
Credo che sarebbe meglio andare a cercarlo.
Da
qualche giorno una voce insistente martellava i cuori di tutti noi. Sembrava
che Mario fosse scivolato nel giro della dipendenza della droga.
Un
periodo molto difficile per tanti vagabondi.
Con
molta facilità si lasciavano tentare dalle promesse liberatorie degli acidi. I
voli della coscienza che promettevano
erano coloratissimi e assicuravano intere giornate di sballo.
Tristemente però, appena finito l’effetto, ricapitombolavano nella realtà più
confusi di prima. Ritrovavano le stesse cause che li avevano spinti ad andare
via, e…………..la confusione aumentava.
Liberi
dalla realtà……..o preda di un sogno drammaticamente reale?
Purtroppo
erano in tanti. Gli acidi sintetici da tempo ormai sciamavano nel nostro mondo.
In tanti vi si erano avvicinati e la scalinata, con grande tristezza, ne
rappresentava uno dei luoghi principali di consumo. Ancora la siringa non era
ufficialmente accettata, però stava trionfalmente accostandosi nelle
scoraggiate coscienze dei giovani.
Assistevo
a queste scene con tristezza. Preavvertivo una devastazione sociale senza
limiti e non potevo farci nulla. In quel periodo mi interessava di Mario e
della sua salute. Un vagabondo come Lui, dignitoso, forte, solidale con gli
altri, non può soccombere dietro questo schizzo di veleno costruito artatamente
da quella società che tanto odiavamo.
Quell’acido
prometteva una ascesa degradante verso qualcosa di indefinito, che,
illusoriamente, in tanti si ostinavano a definirla “libertà”…………….ma da cosa!?
Quante
volte me lo chiesi in quei giorni.
Cosa
può attrarre le meravigliose menti dei nostri giovani, amanti del bello e della
libertà, verso quel miscuglio di acidi sintetici che promettevano solo attimi
di libertà coatta e fantasmagorica?
Il
potere aveva escogitato quest’altra trappola. Metteva nelle mani del giovane un
mezzo per contestare la società, nel frattempo
innescava la miccia per segnare la fine del giovane stesso per
dipendenza psichica o per morte.
Non vorrei
sembrare quel tipico rompiballe moralista che cerca di convincere a tutti i costi il malcapitato a smetterla di usare
droga. Io ho solo nel cuore la sorte di Mario. Bisogna intervenire per bloccare
questa ascesa degradante verso la fine. Non può continuare ancora a lungo.
Non ti rendi
conto che l’unica forma di protesta rimane questa? Non vedi come la società ti
agevola in questo tipo di scelte perché sa che è l’unico mezzo che ha per
neutralizzarti o addirittura per toglierti di mezzo?
Bisognerebbe fare qualcosa?
Certo che bisogna farla questa maledetta cosa………..lasciamolo
in pace facendogli vivere questi suoi giorni di gloria.
Per
intrinseca natura il potere sa come proteggersi e come annullare qualsiasi
bacillo di ribellione. Appena scorge del pericolo per la propria sussistenza,
non fa altro che agevolare l’uso di elementi distruttivi velandoli con
l’etichetta di “prodotti condivisi dai contestatari”.
Difatti
gli acidi che giravano allora erano costruiti in laboratori strutturati dal
potere per offuscare le menti del giovane e nel frattempo servivano al potere
stesso per crearsi un alone di “buonismo” perché, coglievano l’occasione, per
proporsi come paladini contro il dilagare di queste droghe. Del resto la nostra
società occidentale ed opulenta, cosiddetta civile, non è nuova a queste
operazioni di pulizia della Coscienza costruite ad arte.
Sfrutta
il terzo mondo, lo affamano e lo derubano di tutte le sue risorse e poi, in un
momento di meschino buonismo, si mette in evidenza ergendosi a eroina della
salvezza dell’umanità.
Si..si! hai
ragione Franco, però se un giorno Mario venisse a mancare, sicuramente il
potere ne gioirebbe, ma noi, i suoi amici, che abbiamo condiviso con Lui storie
di vagabondaggio intense…………soffriremmo molto.
Un
vagabondo in meno non scuote l’equilibrio mondiale, ma deturpa la bellezza
della Libertà.
Un
vagabondo non muore per droga……vive per andare aldilà degli allucinanti effetti
che essa crea.
Saremmo
profondamente coinvolti in questa sua fine…..e non sapremmo più come
continuare.
Un
vagabondo non prevede mai la morte di un altro vagabondo……perché l’essenza
stessa del vagabondo è la vita……..vivere, sognare e Amare.
Mario
non avrebbe mai cercato aiuto. Sapeva come uscire fuori da qualsiasi
situazione. Era un grande vagabondo e conosceva i limiti del proprio corpo.
Sapeva ribellarsi senza trascendere dal concetto stesso di ribellione per non
ridurlo in un semplice atto estremo, capace solamente di produrre male a se
stesso.
Noi, andavo
dicendo, dobbiamo stargli vicino, non dobbiamo farlo sentire solo in questa sua
”autolesionista” protesta.
La nostra
e la sua forza saranno contrassegnate dalla nostra unità.
La
sua sorte ci stava molto a cuore.
Non
potevamo imporci alle sue scelte, anche perché riguardavano esclusivamente la
sua vita. Volevamo semplicemente fargli sentire il nostro Amore e la nostra
condivisione per la protesta che stava portando avanti. Anche noi volevamo
protestare con determinazione, mettendo avanti il nostro corpo, come faceva
lui, però non ne avevamo il coraggio.
Mi
mancava l’ardire di chi si sente forte e di chi si sente nel giusto.
Ero
abituato a lottare, ma mai avrei messo in pericolo la mia vita. Anche
nell’illegalità cercavo di muovermi con discrezione, come se qualcosa mi
trattenesse a non andare oltre. Troppi retaggi psichici e sociali mi
trattenevano in quella normalità che tentavo di contestare. A volte incideva anche la paura……..e non
volevo estraniarmi da un controllo razionale sul mio corpo.
Paura……….sempre
questa angoscia che non mi permette di gustare le delizie che stanno oltre le
regole, che sguazzano oltre il conosciuto con tutte le sue leggi limitanti.
…………………eppure,
tanti anni dopo, sull’isola di Ko Samui - era il 1983 e provenivo assieme a
Pina da un lungo viaggio attraverso la Thailandia, Malesia, Sumatra, Giava
Bali, Singapore e ancora Malesia……….. – vissi la mia prima esperienza sotto le
allucinanti visioni dei funghi tailandesi, e confesso di aver trascorso quasi
un intera giornata permeato da una gioia talmente estrema da farmi vivere
attimi di paura intensa alternata a momenti prolungati di profonda tristezza.
Quel
giorno, era il 1 dicembre, compivo 35 anni ed eravamo sfiancati da 45 giorni di
un faticoso correre in un sud est asiatico ancora libero dalle invasioni di
quei gruppi di turisti alla ricerca di sensazioni artificiali…………..e sessuali.
Allora
non ebbi paura di andare oltre il conosciuto, mi sentivo un leone pronto a
mordere le barriere che ostruivano il mio conscio. Una volta tanto seguire
l’inconscio, e i suoi consigli trasformati in istinti da un conscio
assoggettato alla mente, fa sicuramente bene. Ci ridona al nostro vero sé ed
apre enormi visioni su Realtà dimenticate.
Mario
stava intere giornate senza aprire bocca. Elaborava le non-scelte che lo
stavano distruggendo. Era imponente, di mole prepotente, eppure era scivolato
nel turbinio della droga. L’impotenza nel cambiare la realtà, lo aveva
costretto in un angolo. Usava l’unica arma che possedeva per contestare la
società: Il proprio corpo. Non aveva speranze, eppure qualcosa in Lui lo
spingeva a tentare, a sporgersi fin dentro il potere dimostrando l’illusione
della forza……………ma non otteneva nulla, non poteva ottenere alcun riconoscimento
da chi vive nell’insensibilità più fredda.
Il
potere si nutre di quest’odio. Lo volge a proprio favore e ne fa un arma
tagliente, reversibile, che ritorna da dove è venuto e miete vittime a piene
mani. E’ quello che cerca, è il suo ambiente naturale perché sa che alla fine
vincerà sempre l’odio e la violenza.
Mario
conosceva questa triste verità, eppure, come tanti poveri eroi, ha voluto
provare…………….
Franco!! Nessuno
mai ci ha vinti. Se abbandoniamo Mario in questo suo scivolamento, senza
intervenire, stavolta il potere vincerà……….allora si che sarà l’inizio della
nostra fine. Se rimaniamo insensibili a questo suo grido d’aiuto, verremo
accomunati all’essenza stessa dello Stato. Dobbiamo differenziarci dal potere,
essere un’altra cosa di questa “civile” società che si nutre di odio.
Dobbiamo
scindere il nostro mondo da quello loro. Noi siamo diversi e
dobbiamo
dimostrarlo, innanzitutto a noi stessi, ma dobbiamo farci vedere forti,
uniti. Non
possiamo disinteressarci assistendo in silenzio alla sua fine.
Grazie
all’insistenza di tanti di noi, Mario sembrava rimettersi un giorno dopo
l’altro.
Più
di una volta andammo al cinema a stravaccarci in comode poltrone e qualche
volta, dopo aver effettuato sontuose collette, andammo a mangiare in ristoranti
borghesi, prendemmo un casino di gelati e una volta andammo in discoteca, in
uno di quei fumosi locali che in quegli anni accoglievano i giovani che marinavano
la scuola.
Facemmo
i turisti passeggiando sul lungo Tevere, addirittura da Castel Sant’Angelo, era
di domenica, ci confondemmo tra la folla che ascoltava il saluto di Paolo VI.
Visitammo
i tesori vaticani e poi alla fine, per dare un senso completo alla meravigliosa
giornata, prendemmo un taxi facendoci depositare proprio in piazza di Spagna,
ai piedi di Trinità dei Monti.
Mario
riprendeva a sorridere e il suo viso si colorava di raggi solari splendenti.
Una
mattina visitammo lo zoo immaginandoci la sofferenza di quegli animali dietro
le gabbie privati dalla libertà.
L’assillante
andirivieni della tigre limitata da quattro sbarre di ferro, ci rese tristi.
Anche noi, pensavamo, siamo trattenuti in una gabbia dai pali dorati. Ce ne
rendiamo conto solamente quando tentiamo di andare oltre quelle sbarre e ci
viene vietato.
Mancanza
d’aria e deficit di libertà. Vigilati speciali in un inferno spacciato per
paradiso.
L’aspetto
triste dell’orango ci costrinse ad ammainare la bandiera della gioia. Troppa
tristezza sprizzava dal suo sguardo. Troppa ingratitudine nei confronti di un
primate che rappresenta l’anello principale e finale della specie della nostra
evoluzione.
L’orso
bianco, ormai dal grasso disciolto, tra le tristi colate di cemento dipinte di
bianco che andava sull’azzurro, ci impose la ritirata senza alcuna possibilità
di scampo.
Erano
scene che non ci appartenevano. La mancanza di libertà ci faceva soffrire, e
noi eravamo li per ridere, per incoraggiare Mario a riprendersi la vita, e
quelle immagini non gli giovavano affatto……..lo costringevano sempre più in un
angolo dove il semplice calore del suo corpo lo faceva sentire sicuro e
protetto.
Impossibile
rimanervi un minuto in più.
Belin ragazzi!
Mi sento più in carne di ieri. Come mi avete rimpinguato in questo
periodo? Mi sento i pantaloni nuovamente appiccicati
addosso……..speriamo di non incontrare qualche altra messicana. Stavolta non mi
lascerò prendere di sorpresa. Le salterò addosso ancor prima che gridi la sua
meraviglia.
E’ meglio che ne
compri qualche paio di misura più larga, non si sa mai……….
La
scalinata di Piazza di Spagna riprendeva a sorridere. Pericolo scampato, umore
risvegliato e sorrisi assicurati.
Appena
buio rientravamo nella nostra villa.
Non
eravamo ancora stanchi, ma qualche volta rischiavamo di annoiarci, e in quel
momento percepivamo i rintocchi del “rientro” nel mondo dal quale provenivamo.
La casa, la famiglia, le certezze, ci richiamavano……….era il momento di andare,
di riprendere lo zaino e di partire. Ormai erano in tanti a non voler più
rimanere a Roma. Si risvegliava la voglia di rimetterci sulla Strada ed andare
in giro per l’Italia per vivere con i vagabondi di altre piazze.
Era
trascorso più di un mese e quell’odore inebriante che ci accolse,
affascinandoci, stava cominciando a puzzare.
La scalinata non si svegliava mai di
buon ora. Dai nostri appartamenti uscivamo ad ora tarda ancora con gli occhi
abbottonati dal sonno. Arrivavamo alla chetichella per bagnarci nella barcaccia
e per consumare il solito sontuoso cappuccino che ci permetteva di accedere ai
bagni del bar. L’ora del bagno, così l’avevamo definita. Tra una visita alla
toilette del bar e tra un dolce fugace sciacquio nella vasca della barcaccia,
trascorrevamo le prime ore della mattinata.
Di
solito i nuovi arrivati con zaino militare in spalla, sporco e sdrucito,
approdavano in piazza alle prime ore del giorno. Sicuramente avevano trascorso
la notte precedente in qualche sottoponte o alla stazione Termini, ed erano
morti di freddo e affamati. Qualcuno era ancora un novizio, quindi toccava a
noi redimerlo dalla timidezza ed insegnargli la strada della questua. Altri
provenivano da altre piazze o da altre città europee. I vagabondi più numerosi
arrivavano da Amsterdam, ed erano pieni di notizie per le nostre menti avide di
conoscenze.
Il
triste rapporto con la legge e con i suoi gendarmi emergeva già da subito.
Anche lì, l’ordine costituito tentava di imporre con la violenza le proprie
regole. Anche lì, le solite corse notturne per schivare qualche lancio di mazza
o per non essere arsi fin dentro i sacchi a pelo dai nazionalisti che stavano
prendendo piede in tutta l’Europa civile, non mancavano……………………come, qualche
anno dopo, nell’estate del ’70, proprio in piazza Dam anche noi rischiammo di
finire bruciati.
Una
vigilanza serrata da parte nostra, tentava di proteggere la piazza dall’attacco
vile di questi loschi figuri.
Amsterdam
in quegli anni era il bivacco preferito dai vagabondi di tutto il mondo.
Chi
con le chitarre intonava le note della contestazione giovanile, chi con i
cembali in mano giaculava il sacro mantra dedicato a Krihsna, chi con qualche
fiore in mano e qualcun altro dipinto sul corpo si spingeva verso un misticismo
liberatorio……………..un prodigioso mondo fatto di fantasia e di colori non
smetteva di affascinarci.
Ormai
la stessa musica cadenzava tutti i giorni una nenia sconsolante. Sentivo il
bisogno di partire, di spostarmi da quella piazza in un'altra piazza. Volevo
cibarmi di nuove sensazioni, ascoltare dal corpo di qualche altro vagabondo
nuove avventure. Anche se in apparenza sembrava tutto tranquillo…………..un sicuro
giaciglio, una calorosa tavola, amici fedeli, un buon clima e una polizia in
parte addolcita, da quel luogo………..volevo spostarmi.
Il
mese trascorso da sotto un ponte ad un vagone ferroviario, da una scalinata a
una piazza, mi stava venendo a noia. Il nostalgico ricordo dei miei genitori e
dei miei amici stavano prendendo il sopravvento, era il momento di inebriarmi
di “cose nuove”, solo così la malinconia delle sicurezze di casa, sarebbe stata
momentaneamente ignorata.
Trascorse
ancora qualche altra settimana in questo stato di vacuità…………..e poi via.
Non
si erano dimostrati stretti solamente i pantaloni di Mario, stretti erano i
visi dei soliti baristi, dei tassinari e dei carrozzinari, anche il fluire
continuo del turista sembrava essersi arrestato dentro di me…………….la mia mente
non accettava più quel nuovo così ripetitivo.
Ogni
tanto incuriosiva l’arrivo di qualche ritrattista con i suoi pennarelli pronto
a tratteggiare con destrezza qualsiasi viso fosse disposto a sborsare qualche
lira.
Qualche
anno dopo, gennaio febbraio 1970, vissi a Parigi per due lunghi mesi ospitato
dal mio amico Turi. Durante il mio girovagare, proprio a Montmaitre, fui
impresso con un pennarello su un foglio bianco da un artista di strada che
bivaccava in quella mitica piazzetta dietro il Sacro Cuore. Allora mi
nascondevo dietro un bosco di capelli lunghi e barba nera, era la mia divisa e,
con essa in evidenza, mi sentivo forte e contestatario. Non riuscii ad avere il
dipinto per mancanza di soldi. Il giorno dopo vi ritornai con Turi,
ma……………….era stato venduto ad un turista di passaggio attratto da quell’ammasso
di peli neri.
Qualcuno
terrà appeso alla parete il mio viso da vagabondo…..
Parigi,
“la rivoluzionaria” per antonomasia, concentrava il proprio dissenso
all’università la Sorbonne. Spesso mi ci recavo sperando di rivivere i fasti di
qualche anno prima, ma ormai la decadenza era nell’aria. Si contestava la
staticità del potere, il tipo di potere, e non si capiva che il male si
annidava nell’essenza stessa del “potere”. Un potere che, erroneamente, anche
noi, mentre sfilavamo nei cortei studenteschi, richiedevamo a voce
alta……………….noi al potere, il comunismo al potere………….così gridavamo.
Sconoscevamo
l’assurdo potere sovietico e come lo esercitava sul popolo, eravamo ammaliati
dalla rivoluzione a tutti i costi e non si capiva da quale parte stava la
Verità.
A
Roma in quei mesi estivi si vedevano i primi vagabondi anarchici che si
autogestivano la propria vita senza delegare nessuno. Nascevano piccoli
artigiani errabondi che immaginavano e realizzavano direttamente in piazza,
sotto gli occhi di tutti, la merce da vendere. Portavano con se piccoli
zainetti militari dove tenevano tutto l’occorrente: dalle pinze al filo di
ferro, dal cuoio a rasoi affilatissimi, dalle perline colorate ai pennelli
multiuso………. L’idea della questua stava tramontando.
Qualcuno
vendeva la propria arte………..chi strimpellava su una chitarra, chi cantava e chi
recitava Baudelaire, chi fischiava su un flauto e chi spaziava con le labbra su
piccole armoniche…………………tutti davano qualcosa pur di non dipendere dall’altro.
Io
rimasi a chiedere. Non ero capace di dare praticamente nulla, mi affidavo alla
mia timidezza e al mio sorriso.
Arte
misera, molto intima, era il massimo che riuscivo a proporre alla gente romana.
Questo
fu uno dei motivi principali che mi spinsero ad andare via da quel luogo
In quei giorni sentivo quella
sicurezza insita nella scalinata cedermi sotto i piedi. Quasi ogni giorno
arrivavano notizie di qualche vagabondo risucchiato dalle patrie galere per via
di piccoli furti o di sparizioni misteriose dovute senz’altro all’orrida
esistenza di leggi liberticide che imponevano al libertario la presenza di
qualche lira in tasca pena il foglio di via direttamente per casa.
Vi
era chi si ingegnava in un artigianato accomodante pur di dimostrare di
lavorare, e vi era anche chi si era fatto prendere dalla tristezza o dalla
noia………..ed era andato via.
Forse
quel senso di libertà che ci accolse qualche mese prima stava decadendo nella
monotonia e ci sentivamo chiusi, conosciuti, catalogati…………….
Un
grande vagabondo americano, Riggle, sul vagabondare degli hobos senza sosta
scrisse una meravigliosa frase:
“Una profonda necessità di
fuggire una condizione nota per un'altra non nota, di farla finita con tutto
il vecchio e andare alla scoperta del nuovo, di spezzare i vincoli che frenano
e trovare la libertà, di rinunciare al reale troppo ovvio per un più
scintillante irreale.
La stabilità nella vita ha sempre
voluto dire sacrificio”.
Oggi,
dopo più di 40 anni, quei ricordi mi camminano nella mente e non posso fare a
meno di riviverli con gioia. Non provo tristezza, anzi, dentro di me, vivo un
profondo rispetto per quei momenti, so che sono stati i miei Maestri che mi
hanno preso per mano e mi hanno accompagnato alla pienezza dell’oggi.
A
differenza di allora, oggi, le mie avventure, sono in parte studiate e
preordinate ancor prima di partire. L’imprevisto di allora in parte si è
addolcito. La comodità della poltrona di casa tramite internet mi permette di
programmare il viaggio in massima parte “prevedibile”. Rimane l’ebbrezza del
momento, la frenesia di trovarsi a calpestare un altro mondo che a volte non ci
fa essere razionali e attenti.
Il
previsto rimane l’itinerario e forse la meta del ritorno, ma “il durante”
rimarrà sempre un incognita. L’attimo in cui
ci si trova su un bus sgangherato, senza freni, condotto da un
forsennato……………quella è l’avventura.
L’affanno
di immaginarsi scaraventati in un burrone, la paura di essere derubati,
schiacciati sotto una catasta di legna che stanno con te sul camion sul quale
viaggi, l’angoscia di non arrivare in tempo, di sbarcare in piena notte in una
città enorme, popolata da ombre che camminano…………..quello sì.
Da
questo genere di avventura ancora oggi non ci siamo allontanati.
Allora
l’unica cosa prevista era il ritorno, ma quando e come non lo immaginavamo
assolutamente. Sapevo di partire, di andare via in autostop per vivere il
mondo………….ma non prevedevo il giorno del rientro, tutto era lasciato nel vacuo
perché dipendeva dalla nostra resistenza fisica e dall’intensità della passione
che ci bruciava dentro……….e questi due elementi allora non ci mancavano.
Forti,
belli, giovani e innamorati della vita, ingredienti essenziali per un
vagabondo.
Nel
’69, mentre mi spostavo con Pino in autostop e a piedi da Istanbul verso la
Bulgaria, mi trovai su una macchina che volava verso l’Olanda con accanto un
altro autostoppista inglese. Gli chiesi se voleva unirsi con noi per conoscere
Sofia e poi continuare il viaggio. Mi
rispose che preferiva volare sempre verso l’ignoto anziché fermarsi a fare il
semplice turista.
“……………ho
trovato spazio su questa macchina, ebbene, mi sposto con essa fino a quando non
mi scarica. Non sono scemo da fare il visitatore incantato e perdere
l’opportunità che mi offre il momento presente……………….”.
“………..Un vagabondo non impallidisce di
fronte a nulla………….va sempre avanti.
Ama gironzolare a zonzo senza perdersi
in questa nuova moda di fare il villeggiante”.
Così
mi rispose, e così da quel momento immaginai il mio vagabondare.
Da
Istanbul in Olanda………….un’unica corsa. Immaginare semplicemente un simile
viaggio è……..da sballo.
Nel
’71 vissi la mia grande avventura………….Monaco Delhi in presa diretta.
Lo
sballo più grande della mia vita.
La
figura di quell’inglese con tutto ciò che portava dentro di sé, ancora oggi la
tengo viva dentro di me.
Volare via!
Dove non si sa.
L’importante è volare.
Un fiume che scorre, si sposta………….e si
perde nel mare.
Un uccello che vola……….tutti gli attimi
cambia zona.
Noi perché non cambiamo?!
Perché ci dobbiamo legare?!
Il legame slega l’affetto………..esso
incatena l’Uomo.
Sleghiamoci.
Qualcosa di immenso ci attende………
Aldilà dei mari, aldilà ella Strada………
…………vi è la Libertà.
(1981)
Cercavo di stimolare Franco al discorso.
Le sue annotazioni esperte e vissute mi mettevano sempre in crisi.
L’ultimo
proficuo scontro dialettico lo ebbi quando mi permisi di richiamare la sua
attenzione sull’esistenza di questo tipo di società opprimente e ipocritamente
democratica.
Nuccio, ancora
ti poni di questi problemi, mi disse??
Non capisci che proprio nell’attimo in cui te li
poni, fai trionfare la stessa società, con i suoi ossequiosi postulati, che tu
condanni?
L’attimo caro Nuccio. L’attimo ti riempie la
giornata, e la qualità della tua vita dipende proprio dall’intensità e
dall’attenzione che poni ad ogni attimo. Più ti poni queste domande, più
l’ebbrezza dell’attimo fugge via.
Sublimava
l’inutile solamente con la sua presenza. Non si lasciava coinvolgere dai fatti,
ma era la situazione stessa a dipendere dal suo stato d’animo.
Tra qualche anno
ti renderai conto come queste esperienze di oggi ti aiuteranno a maturare in un
certo modo. Noterai come la differenza tra l’oggi e il domani è funzione
dell’intensità e della passione con la quale stai vivendo questo momento.
Notare ovunque ostacoli, o ingerenze dell’odiata società, non aiuta il
risveglio della Libertà che ci vive dentro.
Non siamo in corsa con gli eventi, caro Nuccio.
Abbandonarci ad essi è l’unica scelta che abbiamo.
Vedrai quanta forza ci esploderà dentro appena la
smetteremo di competere con la vita.
Intanto
l’esperienza di vagabondaggio continuava alla grande, anche se ormai sembrava
tutto volgere alla fine.
Quella
notte a piazza Navona, mentre ci dondolavamo sotto il suono ritmato della
chitarra, una precipitosa retata della polizia ci distolse dal nostro dolce
sognare. Fummo circondati da diverse camionette che rigurgitavano forze di
polizia bardati con divise d’assalto, con manganelli e con caschi
anti-sfondamento. Chiesero i documenti, ci tastarono il corpo sperando di
trovare l’arma incriminata, volevano vedere quanti soldi avevamo e come mai a
quell’ora eravamo lontani da casa.
L’interrogatorio
continuò in centrale.
Seduti
su tavolacci di duro legno, uno per volta fummo chiamati e sottoposti ad un
nuovo interrogatorio.
Provavo
umiliazione per loro. Erano giovani, forse qualche anno più di noi, ma già
mostravano la loro vera natura. Si sentivano disturbati da noi perchè eravamo
in tanti ed eravamo liberi. Da dietro le spalle ticchettava una voluminosa
“olivetti” annerendo su un foglio bianco i nostri nomi e cognomi, gli anni e la
provenienza, e poi questi fogli venivano catalogati sotto il nome della “V”,
che stava per “Vagabondi senza fissa dimora”.
Continuarono
tutta la notte, alla fine trattennero qualcuno di noi, mentre gli altri, tra i
quali io, furono rimandati via.
La
Strada ci attendeva a braccia aperte.
Si
era sparsa la voce del nostro arresto e nel frattempo gruppi di vagabondi si
erano radunati davanti l’androne della polizia per accoglierci con battute di
mani e “evviva”, man mano che uscivamo. Qualcuno con il foglio di via affisso
al petto lo strappò appena uscì, riprendendo con più passione il suo peregrinare
per le strade del mondo.
Non
avevano capito che il movimento beatnik ci partiva sin da dentro lo stomaco.
Eravamo presi da quella realtà che ci stimolava a vivere itinerando, e nessuno
poteva fermarci.
Loro
speravano in una forma di paura da parte nostra o ad un richiamo dei nostri
genitori……..poveretti!!! Ignoravano il fermento che ci bruciava dentro, la
voglia ruggente di Libertà, di conoscenza di spazi infiniti.
Stava
esplodendo l’occidente e loro, rappresentanti ottusi e schiavi della legge, non
se ne rendevano conto. Bastava frequentarci un po’, sentire le nostre ballate,
discutere con noi, dormire qualche notte sotto i ponti assieme a noi, per
rendersi conto della nostra semplicità.
Forse
qualcuno tra di noi trasbordava aldilà delle nostre regole non scritte, ma:
potevano, questi striminziti elementi, criminalizzare l’intero movimento?
Chi
era stato diffidato dal rimanere a Roma, si spostava per qualche giorno in
qualche altra città, si cambiava d’abito e appena possibile rientrava alla
base. La nostra scalinata sapeva come accogliere il vagabondo.
Un giramondo lascia la preda solo
quando lo decide lui. Pur di non farsela sfuggire aguzza l’astuzia, affina
l’intuito e si ispessisce nel corpo per resistere meglio alle intemperie.
Decide sempre Lui quando andare via.
Nel
’69 a Sofia fummo scortati fuori città dalla polizia in borghese. Ci
raccattarono in un self service della città mentre mangiavamo qualcosa e nel
frattempo facevamo incetta di zollette di zucchero. Eravamo vagabondi, per
giunta senza soldi, quindi in quel luogo non potevamo stare. Ci avevano
scortati sin dall’entrata in Bulgaria senza farsi vedere. Sapevano che
dormivamo fuori ed avevano paura che questo nostro modo di vivere e di
viaggiare avrebbe potuto scuotere le menti di qualche giovane. Addirittura
fermarono una macchina e la obbligarono ad accompagnarci diversi chilometri
fuori città. Per noi è stata una fortuna perché non sapevamo come fare.
Si
stavano restringendo gli sprazzi di libertà che la Roma imperiale ci aveva
regalato solo qualche mese fa. La nostra residenza al Pincio stava per essere
espugnata dalle forze dell’ordine, ormai l’aria si era infettata e dovevamo per
forza andare via.
Vennero
al buio come dei lanzichenecchi, saltarono il muro intrufolandosi nella fitta
vegetazione, si strapparono qualche lembo di pelle e alla fine raggiunsero
l’obbiettivo.
Erano
soddisfatti, orgogliosi che finalmente avevano conquistato la roccaforte dei
vagabondi, delinquenti incalliti pronti a perpetrare qualunque crimine pur di
ricavarne del denaro.
Tristezza,
amarezza, rabbia………..un intreccio di sensazioni sconfortanti.
Dovevamo
sloggiare a tutti i costi.
Qualcuno
venne portato dentro e trattenuto per un paio di giorni, altri fuggirono per
non farsi riconoscere, altri ancora, tra i quali vi ero io, prendemmo con calma
le nostre ridottissime cose, fornimmo le generalità e andammo via.
Solo
la scalinata a quell’ora poteva accoglierci, difatti ci incontrammo tutti la
per prendere delle decisioni.
Stranamente l’innata solitudine del
vagabondo, in quel caso particolare si trasfigurò in un evidente bisogno di
comunicare. Dovevamo per forza parlare, sapere degli altri, decidere cosa fare
e se era il momento di abbandonare la nostra scalinata per rifugiarci lungo le
Strade del mondo.
Sulla
Strada sicuramente avremmo ritrovato il nostro paradiso e la nostra Libertà.
Non
passarono molti giorni. Ognuno si rintanò dove meglio credeva, sparpagliandoci
in silenzio sotto i nostri ponti o sotto qualche albero di villa Borghese.
Roma
non ci conteneva più. Troppi controlli e troppi infiltrati.
Presi la decisione di organizzarmi, andare al
mercato, comprare lo zaino, raccogliere quanti più soldi possibili e mettermi
al più presto all’entrata dell’autostrada per Firenze.
Franco
e Mario improvvisamente scomparirono. Mi dissero che la polizia li prelevò
direttamente da dentro una vasca romana mentre si bagnavano in mutande.
Non
li rividi più, anche se per diversi anni, prima di iniziare le mie avventurose
traversate in autostop per l’antico continente, passavo da Roma, chiedevo di
loro………..ma niente.
Nel
’74, mentre ero a Roma con Pina, corsi verso un vagabondo a braccia aperte
convinto che fosse Franco…..non era Lui.
Buio
completo.
La
fine di una storia era al culmine.
Inghiottiti
dalla Strada o tracannati dalla legge!?
Mi
rimarrà sempre questo dubbio.
L’alba
di una mattina d’agosto mi svegliai infreddolito, mi raccolsi in silenzio,
ammirai il silenzio degli altri vagabondi, ne sentii la forza e lentamente mi
avviai a prendere il bus che mi avrebbe condotto all’imbocco dell’autostrada.
Avevo qualche lira, poco cibo, niente acqua e la grande determinazione di
andare a Firenze. Sapevo di altri vagabondi che mi stavano aspettando per
invadere con i nostri zaini l’intera Europa.
L’ultimo
giorno trascorso su quella scalinata lo vissi inserito nella mia immagine
preferita: IL VAGABONDO.
Stetti
l’intero giorno con lo zaino accanto, sdraiato sulla scalinata con la coperta
militare per cuscino e fumando. Mi sentivo pieno della mia esperienza. La mente
era occupata dagli ultimi avvenimenti.
L’incalzante
presenza della polizia ha sfigurato quel bel sogno. Se fossi rimasto solo
qualche altro giorno, lo splendore di quell’avventura si sarebbe annuvolato per
lasciare spazio dentro di me alle ultime intemperie. Ho proprio fatto bene a
decidere di andare via.
Presi
l’autobus carico di me stesso e via, sgusciando in un anonimato silenzioso,
senza creare scalpore, come solo un vero vagabondo sa fare, mi protesi verso
un’altra storia.
Abbandonai
la scena sommerso dallo stesso silenzio con il quale ero arrivato qualche mese
prima. La Strada mi stava riassorbendo………..e ne ero confusamente felice.
Partivo per Firenze………..ma ero poco convinto.
Ai
piedi portavo un paio di scarpe nuove fiammanti che Franco mi aveva prestato.
Sicuramente erano frutto delle tante razzie notturne che andavano facendo per
le borgate romane. Stavo per riprendermi la mia Strada, lunga, piena di insidie
e di insicurezze………però era la mia Strada dove vi camminavo a testa alta
convinto che Essa non avrebbe tradito mai chi La voleva bene.
Scrissi
FIRENZE su un foglio di carta, lo attaccai al petto e via………pollice destro
rivolto verso il nord, con il vento in poppa e pieno di speranza mi piazzai
all’imbocco dell’autostrada, l’ultimo di una lunga fila di autostoppisti che si
dirigevano verso settentrione.
Mi
sentivo orgoglioso di me stesso e nulla poteva trattenermi.
Volare
era nulla paragonata al desiderio che avevo di “andare via”, viaggiare libero,
solo con il mondo e abbandonato nelle mie mani.
Mi
sentivo un esperto, ma la mia timidezza mi restringeva in un angolo.
L’irruenza
che mi sentivo in corpo era contratta dal mio balbettare.
Non
sono mai riuscito a fregarmene ed accettarmi così come sono. Ho sempre pensato,
stupidamente, di creare fastidio in chi mi ascoltava o di suscitargli fugaci
sentimenti di pena, che erano le uniche due sensazioni che non volevo stimolare
negli altri. Facevo di tutto per mostrarmi senza “difetti”, addirittura
preferivo rimanere in silenzio pur di non essere guardato con compassione.
………………ma
chiedere un passaggio non richiedeva speditezza nel parlare. Una volta salito
in macchina avrei risolto tutto come sempre ho fatto. L’importante in quel
momento era partire, slacciarmi dalle catene che mi avevano trattenuto a Roma.
Ci
eravamo dati appuntamento a Ponte Vecchio di Firenze e da li poi spostarci in
blocco verso le “Cascine”, il grande parco attorno Firenze che in quegli anni
serviva da raduni mondiali all’insegna della Libertà e della contestazione.
La
vita per me ricominciava in quel momento, come se la lunga avventura estiva
romana non fosse esistita. Non ero stanco e non desideravo tornare a casa. La
frenesia del viaggiatore incantato mi era esplosa nuovamente dentro, e con essa
era arrivata anche la certezza di andare avanti perché sicuramente avrei
trovato ciò che cercavo.
L’intera
Europa, con le sue piazze e i suoi ponti, mi stava aspettando. Non volevo
perdere tempo………………forse avevo un inconscia paura di girare l’angolo e di
rimettermi sulla via del ritorno.
Via………via,
aspettavo un passaggio, ma nessuna macchina si fermava. Passavano le ore,
vedevo sparire davanti a me tutti gli altri vagabondi…..ma la mia ora non
arrivava. In mezza giornata da quel luogo si erano spostati solo pochi
autostoppisti, prima di me ancora ve ne erano diversi, quindi l’attesa si
trasformava in ansia, in fame, in sete.
Verso
l’imbrunire, minacciose nuvole si alzarono in cielo e non davano segnali di sereno.
Improvvisamente si misero a scaricare acqua colpendo in pieno la nostra
determinazione. La smussarono, la lavarono e la denudarono………..alla fine, in un
attacco istintivo di bisogno di certezze, attraversai l’autostrada, saltai lo
spartitraffico e in pochi secondi mi trovavo, sempre con il pollice in alto, ma
stavolta rivolto verso sud………….verso casa.
Ero
dall’altra parte. Non me ne resi nemmeno conto, e con lo stesso ardore di prima
continuai a chiedere passaggi alle macchine che sfrecciavano verso sud.
In
un baleno avvenne il crollo.
La
paura….l’indecisione…..gli affetti……la mancanza di denaro……l’incertezza di
trovare amici……la solitudine……le retate della polizia…….la nostalgia di
casa…….dei miei genitori……………attimi apparentemente vuoti, vissuti con
istintività senza alcuna motivazione.
Mi
sono sempre chiesto, tra tutti questi attimi, quale fosse stato il vero motivo
che mi spinse a cambiare direzione e a dirigermi verso casa, verso quel mondo
contestato dove la ribellione del singolo non viene assolutamente considerata.
Attimi
che segnarono la fine di quell’avventura per ricacciarmi nuovamente
nell’avventura di quella quotidianità che allora, e forse anche oggi, si viveva
in un piccolo centro della Sicilia.
Per
non rischiare di pentirmi di quel comportamento frenante, perpetrato verso la
mia vera natura, giro il foglio di carta dall’altra lato e lo annerisco
scrivendovi su: NAPOLI.
……e
vai, senza alcuna tristezza verso quel “già noto” che mi stava aspettando.
Pensai
a come raccontare agli amici quest’avventura. Se dovevo impreziosirla
aggiungendo qualche rapporto con una bella francese o limitarmi a raccontare
con freddezza il verificarsi dei fatti senza trascendere nel ribollimento
interiore che l’esperienza mi aveva generato dentro.
Ormai
ero sulla via del ritorno, e quei pensieri di fuga verso la Libertà
simultaneamente si ridimensionarono e divennero immagini di normalità, si
trasformarono in visi conosciuti, in azioni già ripetute negli anni……………la
piazza del mio paese era riapparsa nella mia mente. L’avevo dimenticata, si era
allontanata dai miei pensieri proprio nell’istante in cui salii su quel treno
che mi trasportava verso la Libertà facendomi sentire subito a casa, nel mio
ambiente naturale, proiettandomi istintivamente verso il mondo……..adesso stava
riapparendo con tutto ciò che essa contiene in sè: Angoscia, senso di
solitudine, incomprensione, esibizionismo, maschere, apparenze, omofobia,
pettegolezzi, politicanti lecchini, religiosi bigotti, chiusure mentali……….
In
pochi attimi la gioia di spaziare nel vecchio continente con zaino in spalla e
pollice rivolto sempre verso il dopo, si ridimensionò.
Verso
il nulla, questo pensavo. Verso il niente, verso le inezie della società
bigotta………..è il momento di riempire tutti quegli interstizi vuoti con la
pienezza di questa mia fantastica avventura. Dovevo farlo, definirmi “pieno” in
quel vuoto che avrei trovato in paese e lentamente cercare di “colonizzarmi”
gustando quel senso di assoluta Libertà che ho vissuto durante questi mesi di
vagabondaggio.
Intanto
quei nuvoloni che salivano erano diventati neri e stavano scaricando un mare di
acqua su quegli ultimi autostoppisti rimasti. Non sapendo come proteggermi, mi
ricordo, staccai un insegna stradale dai pali che la reggevano e la misi in
testa. Ricominciai a sperare. Sfoderai un sorriso accattivante e iniziai
l’avventura del rientro. Sapevo che stavolta sarebbe stato più facile perché
ero rimasto da solo a chiedere passaggi, e poi, l’instabilità del clima avrebbe
sicuramente suscitato una certa compassione e qualcuno mi avrebbe preso su.
Non
stetti molto ad aspettare.
Una
utilitaria mi prese scaricandomi al casello per Frosinone. Mi rimisi in strada
e in poco tempo un'altra macchina mi caricò su portandomi fino a Ceprano, a
soli 15 chilometri. Intanto era quasi buio e l’attesa per un altro passaggio mi
stava sfiancando.
Continuava
a piovere e le macchine mi sfrecciavano davanti senza nemmeno vedermi. Non
esistevo, ero un puntino indefinito dal quale non sprizzava alcuna luce capace
di accendere la curiosità di qualche guidatore. L’unica macchina che si fermò
fu una gazzella della polizia per invitarmi ad uscire dall’autostrada. Feci
solo alcuni passi e poi, appena possibile ritornai al solito posto.
Preferivo
stare lì perché vi era un ponte sotto il quale potevo ripararmi dall’acqua.
Un
buon autostoppista deve sapere che accettare passaggi di breve tragitto è
conveniente solamente quando ci si sposta su strade provinciali o nazionali,
mentre quando ci si muove in autostrada bisogna farsi lasciare all’imbocco del
casello e principalmente in caselli affollati da macchine che fanno lunghi
tragitti. L’inesperienza, in questi casi, determina scelte errate, senz’altro
condizionate dall’ansia che si è accumulata sulla strada in attesa del primo
mezzo di locomozione che ci carichi su.
Un
errore imperdonabile che quella volta pagai amaramente.
Le
macchine e i camion mi trascinavano sulla loro scia, tanta era la velocità.
L’unico contatto che ebbi con essi mi fu offerto dal grande spostamento d’aria
che ogni volta mi causava un sussulto. Ormai il buio era cupo e l’acqua
scrosciava sempre con più ardore, non riuscivo a identificare quale tipo di
macchina mi sfrecciasse davanti, tanta era la velocità. I fari mi stringevano
in un angolo facendomi tremare di paura.
Decisi
di stendermi sotto il ponte per attendere l’alba e potermi rimettere di nuovo a
chiedere passaggi. Mi distesi su un terrapieno per evitare lo scorrere
dell’acqua, non dopo aver disteso la coperta militare che tenevo nello zaino.
Cercai di dormire, di guardare oltre la paura che ne sentivo l’incalzare man
mano che il buio avanzava. I fari mi saettavano sugli occhi facendomi strizzare
le palpebre come se li volessi proteggere. Avevo occluso il pollice destro tra
il calore del palmo della mano sperando in un suo miracoloso intervento il
giorno dopo. Lo coccolai per pochi minuti, dopo un po’, non riuscendo a
prendere sonno per via dei morsi della fame e del bisogno di acqua da bere, mi
scrollai di dosso la stanchezza, raccolsi la coperta dentro la zaino, mi alzai
e mi avviai sconfortato verso l’uscita dell’autostrada.
Presi
la direzione per Ceprano sperando di trovare la stazione dei carabinieri ancora
aperta. In quelle poche ore avevo preso la decisione di consegnarmi alla
“forza” a mani aperte per farmi “recapitare” a casa.
Sapevo
di altri vagabondi che avevano preso questa decisione in un momento di
sconforto. Bastava togliersi di dosso qualche formula borghese al quale non
volevo sottomettermi, e l’essenza stessa del “vagabondo” si sarebbe trasferita
e rinnovata in un altro Nuccio……amante sempre della Libertà ma con un piccolo
passo falso sul groppone.
Preso
per fame e per desiderio di trovarmi subito a casa, entrai in paese a piedi con
lo zaino sulle spalle, barba lunga, zoccoli ai piedi e stanchezza stampata sul
volto.
Ancora
il paese era vivo e la strada principale era piena di giovani, quindi trovare
la caserma non mi fu difficile. Pressai sul campanello e dalla guardiola
qualcuno mi gridò cosa cercassi a quell’ora.
Ho bisogno di
parlare con qualche carabiniere Come mai lo
cercate! Cos’è successo?
Ho bisogno di
acqua e di pane e poi vorrei essere “spedito” a casa perché non ho i soldi per ritornare.
Scosse
il capo e aprì la porta solamente per dirmi che loro, come caserma di un
piccolo comune, non potevano fare nulla. L’unica cosa che potevano fare era
quella di offrirmi un panino e accompagnarmi alla stazione dei treni per andare
a Frosinone o a Cassino, in un caserma più grande. Decisi per Frosinone e in
pochi minuti mi trovai seduto in un angolo della stazione per salire sul primo
treno che andava verso la città.
Cercai
di vendere l’orologio per ricavare almeno i soldi per pagarmi il biglietto.
Niente da fare. L’unica risorsa consisteva nel darmi una spinta e salire sul
primo treno che passava senza biglietto in mano. Fu proprio così che feci.
Era
l’una di notte e mi veniva impossibile questuare qualche lira.
La
stazione non era in centro. Chiesi 50 lire per prendere un tram e via, ad
affrontare l’ultimo ostacolo.
Non
fu difficile, difatti in meno di un ora mi trovavo su un macchina della polizia
che a sirene spiegate mi stava conducendo alla stazione per salire sulla
tradotta militare che tra poco sarebbe passata da Ceprano diretta verso Napoli.
Tutto
così in fretta senza avere il tempo di realizzare cosa stesse per capitarmi.
Un
Nuccio stanco, con un pesante zaino sulle spalle che mi costringeva a camminare
con passo pesante.
Nuccio
il vagabondo vinto dalle intemperie e dalla fame che si avviava verso le
sicurezze che prometteva la casa.
Nuccio
solo, mentre al buio, sollecitato dal latrare dei cani, percorreva gli ultimi
chilometri che lo separavano dal paese.
Nuccio
ritornato ad essere un ragazzo impaurito, timido, scrollatesi di quella
sicumera acquistata durante l’ultima avventura vissuta da vagabondo sulla
strada, mentre si rivolgeva all’odiata
“forza” per essere aiutato.
Tutto
in meno di un ‘ora.
Mi
trovavo su una tradotta militare assieme a militari di leva che rientravano a
casa, cercavo di riandare con la mente ai fasti di qualche giorno fa, ma non
riuscivo a non pensare a casa. Volevo subito trovarmi tra le mie mura di
certezze, anche se sapevo che in soli pochi giorni le avrei “sconfezionate” da
quell’alone di false verità sotto le quali si camuffavano………………..ed avrei ripreso
con i miei viaggi, con le mie avventure e con i miei sogni.
In
jeans sbrindellati, tra tutti quei militari, mi differenziavo anche senza
volerlo. In quel momento preferivo l’anonimato, non ero nelle condizioni di
sostenere un interrogatorio. Ero colmo del “malo” modo come era finita
quell’avventura, e non sarei riuscito ad essere sincero con me stesso semmai qualcuno mi avesse chiesto qualcosa.
Sembrava che un altro Nuccio avesse vissuto quell’esperienza, il Nuccio del
momento era un'altra cosa da quello.
Quello era un eroe………….l’attuale era un
“assuefatto”.
Quello riusciva a volare………..l’odierno
era tarpato sotto le proprie ali.
Quello rideva a cuore aperto……..questo
Nuccio sorrideva a denti stretti.
Tenevo
stretto il biglietto per Catania, ormai, pensavo, l’unica cosa che avrebbe
potuto farmi soffrire sarebbero state le strette della fame, qualsiasi altra
cosa mi avrebbe semplicemente sfiorato.
Cercai
di rimanere in silenzio per oscurarmi dietro i miei pensieri, a Napoli avrei
risolto anche questo problema. Era quasi l’alba quando arrivai nella città
partenopea, il treno per Catania sarebbe arrivato tra meno di un ora, quindi
potevo benissimo procacciarmi qualche tazza di latte e caffè per sostenermi
almeno fino all’arrivo.
L’ebbrezza
del sentirsi libero stava transumando verso la freddezza di una libertà coatta,
concessa a pezzettini da un ambiente fortemente bigotto e conservatore.
Stai
attento a non esporre pubblicamente le tue idee, mi diceva sempre mio padre,
potresti precluderti la possibilità di un buon lavoro. Rispetta le autorità,
osserva le prescrizioni della società………..NON parlare male del prete, NON
vestire in modo “scorretto”, NON portare mai schiaffi in casa, NON fumare, NON
giocare al bigliardo, NON portare i capelli lunghi……………una pletora di divieti e
di cose da fare in un certo modo se vuoi considerarti addentellato con la
società, se no sei fuori e la tua vita sarà un calvario.
Pensavo
queste cose e non mi sentivo di rientrare a casa. Dovevo fare qualcosa, dovevo
almeno togliermi questi pensieri dalla mente. Mi avrebbero torturato e
risospinto ad andare via dopo solo alcuni giorni.
In
quegli anni la vita in un piccolo paesino del sud era veramente accecante. Non
ti permetteva di transitare oltre quel frenante conosciuto. Pochi spazi e poca
possibilità di sognare. Reclusi in una realtà apparentemente disponibile,
mentre invece sotto sotto ardeva il fuoco del conservatorismo, bruciava la
vampa del bigottismo e infiammavano i roghi delle false indulgenze.
Non
si era capiti, o meglio……….non si volevano volontariamente capire le richieste
di libertà avanzate dai giovani e dalle poche menti libere. Doveva procedere
tutto allo stesso modo di prima. Il solito circolo universitario e
professionisti, la solita “fraternita” religiosa, i soliti partiti politici, i
soliti primi della classe, il solito rispetto alle persone influenti, il solito
sorriso ipocrita per nascondere la sofferenza che si porta dentro, il solito
passeggiare in piazza con i soliti discorsi preconfezionati, la solita
borghesia a sentenziare l’unica verità…………………..il solito prete e il solito
maestro a strimpellare sempre la solita musica per i soliti uditori che
esprimevano sempre il solito parere: “bene………va tutto bene”.
Sul
treno per Catania, mi ricordo, rimasi in silenzio assoluto.
Cercavo
di rintracciare motivi validi che mi trattenessero nel mio paese. Deformavo la
realtà per assuefarla alle mie esigenze, me la immaginavo più aperta, meno
supina alle formalità borghesi…………………..cosa avrei voluto dalla mia terra per
non sentirmela sfuggire dal mio cuore?! Come l’avrei voluta?! Quale profumo
avrei voluto che emanasse per ammaliarmi?!
L’amore
per la propria terra forse non bastava per trattenermi….ci voleva qualcosa di
più, più umano, più comprensivo, più eccitante, più evoluto. Forse mancava la
giusta apertura mentale, anche da parte mia, per accettare le cose “così come
erano” senza costringerle ad un cambiamento che non le apparteneva, almeno in
quel momento. Forse dovevo essere io a smussare per primo le mie “intransigenze”,
forse ero corso troppo in avanti, avevo fatto balzi da gigante, mentre essa si
spostava con passi da lumaca e i cambiamenti le correvano sotto i piedi senza
riuscire a pesarne l’essenza.
Non
decisi nulla, sentivo il desiderio di ritornare a casa perché volevo
abbracciare tutti e raccontare l’avventura a tutti.
Arrivai
a Catania in un pomeriggio afoso. Era la fine di agosto e la stazione pullulava
di viaggiatori e di “emigranti” che rientravano alle proprie sedi di lavoro, vi
era anche qualche vagabondo con i suoi possedimenti sulle spalle pronto a
saltare sul primo treno che lo conducesse verso la Libertà.
Non
ero solo, menomale, pensai.
Qualcuno
sta continuando a portare l’emblema della propria sovranità. Un potere supremo
autogestito da sé stessi rivolto esclusivamente a sé stessi. Non più ne meno.
Incontrai
Turi Taormina, un mio amico di Motta………
………..mi
ricordo quando nel gennaio del 1970 partii da Catania in autostop da solo alla
volta di Parigi per andarlo a trovare. Da sei mesi lavorava all’ambasciata
d’Italia in questa immensa metropoli e, da buon giramondo, non potevo farmi
sfuggire quest’opportunità. Vi arrivai dopo diversi giorni all’una di notte e,
non sapendo cosa fare, chiesi dell’ambasciata italiana che stava a rue du
Varenne. Suonai un campanello e qualcuno mi rispose in francese chi cercassi a
quell’ora.
Monsieur
Taormina, je suis Nuccio dalla Sicilia, dissi in un mio stentato francese. Dopo
pochi minuti la sua voce tuonò al citofono: “……….disgraziato, a quest’ora di
notte mi viene a cercare, proprio all’ambasciata italiana……….” Scese subito
dopo, ci recammo a Rue Turbigò dove con amici aveva affittato un
appartamento…………….e un'altra avventura prese l’avvio.
…………….al
quale chiesi subito qualche soldo per comprare un panino e per prendere un
autobus per casa. Mi raccontò le ultime novità del paese e mi disse anche sulle
tante voci che in questo periodo erano state rovesciate su una mia presunta
scomparsa.
Fu
il primo abbraccio del mio paese.
Evidentemente
non era cambiato, si era avvitato ancora di più su se stesso manifestando la
sua vera natura di piccolo mondo ristretto tra le sue quattro mura grondanti di
formalismo e di rifiuti a priori.
Scesi
dall’autobus in piazza, rividi le solite facce e le solite risatine di
meraviglia. Fui circondato da qualche amico e in un afflato “assimilante” mi
sentii ricapitombolato nel solito tram tram paesano immemore della grande
avventura che avevo vissuto.
Ciao
Nuccio, sei ritornato……come stai, come va, ti sei trovato bene, dove sei stato,
ti sei divertito, hai avuto esperienze con donne, come sono le donne…sono più
libere, più facili, e i capelloni, e il fumo, dove dormivi, cosa fumavi, le
fiche, le fregne, i fregnoni di Roma, il Pincio………………..dai raccontaci tutto.
Mio
padre stava in piazza come tutte le
sere, dalla piccola folla che si era creata capì che il “figliuol prodigo” era
ritornato. Non avevo scritto nemmeno un rigo e nemmeno telefonato, quindi la
loro ansia era comprensibile.
Ciao………tunnasti!!
Baci
e occhiate di vergogna. Ero veramente sporco e veramente barbone.
La
sera stessa ripresi le mie passeggiate in piazza sperando di scorgere la mia
Pina, l’unico mio vero legame con la mia gente che non si è mai allontanata dai
miei pensieri e dal mio cuore.
Da
quell’avventura mi rimase una pienezza assoluta.
Seppi
cosa fare della mia vita e mi esplose dentro un Amore per la Vita stessa
considerandoLa una manifestazione Divina dentro la quale l’Assoluto stesso vi
vive in pienezza.
Nuccio GUARNERA
Nessun commento:
Posta un commento