martedì 6 giugno 2017

IL CASTELLO DI NEUSCHWANSTEIN - Un affascinante week end alla scoperta del mondo di Ludwig II

Un affascinante viaggio di un week end alla scoperta  del mondo di Ludwig II 
 

 Due giorni per assaporare la magia di quella parte di Germania Bavarese conosciuta come la Romantische Strasse “La strada romantica” ed il Castello di Neuschwanstein (meta del nostro viaggio), fatto costruire da Ludovico II di Baviera.Ci è apparso fantastico già da lontano, spuntava su una sporgenza rocciosa, maestoso eppure slanciato ed elegante, con le sue torri e le innumerevoli guglie sottili che spuntavano dalla pineta. Era una sensazione unica che lasciava senza fiato, ci trovavamo di fronte ad un vero castello delle favole.. che si inseriva in un mondo irreale di sogno e realtà. Persino Walt Disney ne era rimasto affascinato tanto da prenderlo come modello per il castello del suo celebre film d’animazione “La bella addormentata nel bosco”! Questo castello, incredibile e suggestivo, era stato costruito su una roccia sopra la gola di Pollac con vista sulle montagne che guardavano il Tegelberg, un monte alto quasi 2000 metri..simboleggiava tutta la forza, il fascino della cultura e della regalità medioevale, ma nello stesso

 
tempo esprimeva quasi, in tutta la sua bellezza, una sorta di profonda drammaticità. Dopo aver fatto un 20 m di fila  riusciamo ad acquistare i biglietti e ci dirigiamo  a piedi attraverso un bosco di pini. Dopo una mezzoretta di cammino arriviamo davanti all’ingresso. Questo  ci ha dato l'impressione di un salto indietro nel tempo in una vera corte medioevale, nonostante la relativa modernità di quella costruzione. Entriamo nel castello, ci viene consegnato un audio guida e in gruppo iniziamo la nostra visita. Anche la realizzazione degli interni mi è apparsa suggestiva, un simbolo dell’idealismo tedesco, infatti i suoi affreschi che riempivano le pareti ed i soffitti, si orientavano alle saghe cavalleresche tedesche e nordiche e ancora al mondo ideale di Richard Wagner da cui il re era
 
           Castello di Neuschwanstein
 
stato da sempre affascinato. La sala dei cantori, per esempio, una specie di sala delle feste, fatta ad imitazione della sala della Wartburg presso Eisenach, era ornata da scene tratte dal poema di Parsifal e dalla saga del Gral. La “sala del Trono” poi, uno spazio sacro della monarchia, era tutta affrescata in blu e oro ed era stata realizzata imitando addirittura le basiliche bizantine e paleocristiane. Ci hanno detto che non venne mai usata dato che il 13 Giugno del 1886 Ludwig fu trovato morto nel lago di Starnbergersee… in modo tuttora misterioso.
Castello di hohenschwangau
Tutto in quel castello era da ammirare e certo il breve tempo a disposizione per la visita non dava spazio alla riflessione ed alla osservazione dei particolari che erano troppi.. quel re solitario, per esempio aveva una predilezione per le camere da letto sfarzose, per gli angoli dove potersi ritirare a riposare come quello del “Cigno”. Ci hanno anche spiegato il significato di questo animale ricorrente nei vari castelli dei reali di Baviera, era un simbolo che campeggiava nello stemma dei signori di Schwangau perchè rappresentava la purezza e la bellezza e inoltre per Ludwig II era legato all’opera di Wagner, il Lohengrin, dove il cigno occupava un posto da protagonista! Una visione di insieme, del castello si ha dal “Ponte di Maria” voluto dal padre di Ludwig, Massimiliano…...un tempo era una passerella di legno che sovrastava la gola di Pollat, ora era un ponte in ferro che si tendeva ardito ad arco sopra la gola e la cascata ad un’altezza di ben 91 metri.


LUDWIG

Ludwig II è stato deposto dal trono l'8 giugno 1886: una commissione medica presieduta dal dottor Bernhard von Gudden lo dichiara malato di mente. Il mattino del 12 giugno il sovrano viene condotto in carrozza da Neuschwanstein a Berg, un piccolo castello sulle rive del lago di Starnberg trasformato per l'occasione in una sorta di prigione: inferriate alle finestre, spioncini da ogni parte, porte che si potevano aprire solo dall'esterno... Sua Maestà è malato di mente ad un grado molto avanzato, cioè soffre di quella forma di malattia mentale che gli psichiatri ben conoscono per esperienza col nome di paranoia (pazzia). 2. Data questa forma di malattia, il suo graduale e progressivo sviluppo e la sua già molto lunga durata, che si estende su un gran numero di anni, Sua Maestà è da dichiarare inguaribile e si può prevedere con sicurezza un ulteriore decadimento delle forze psichiche. 3. A causa della malattia la libera volizione di Sua Maestà è completamente esclusa, egli è da considerare impedito nell'esercizio del governo e tale impedimento durerà non solo più di un anno, ma per tutta la vita.

Nel pomeriggio del 13 giugno, Domenica di Pentecoste, Ludwig chiede di poter fare una passeggiata e il dottor von Gudden lo accompagna, senza alcun infermiere o guardia al seguito: il sovrano appare sereno e tranquillo e il suo medico non ritiene necessaria la presenza di una "scorta". Passate alcune ore, i due non fanno ritorno e scatta l'allarme. Partono le ricerche prima intorno al castello, poi lungo il parco e, finalmente, verso le 23 vengono ritrovati sia Ludwig che il medico: sono tutti e due morti nelle acque del lago!

 La morte viene subito classificata come annegamento causato da un incidente ma l'autopsia ha poi stabilito che non c'era acqua nei polmoni del sovrano. “IL MISTERO CONTINUA”

(estratto della perizia medica

Quando Ludwig nel 1886 fu dichiarato malato di mente ed interdetto, lasciando il suo castello e consapevole di non tornarvi più disse al suo servitore fedele Stich ”Caro Stich, custoditeper me queste stanze come un santuario. Non lasciate che siano profanate dai curiosi, perché qui ho voluto trascorrere le più amare ore della mia vita!A questo punto mi viene da pensare che cosa avrebbe detto il re della folla incredibile di turisti nelle sue stanze… si sarebbe reso conto che non si poteva parlare di profanazione?

Tutta la folla in visita al castello, stava cercando di capirlo, di vedere la bellezza di cui si era circondato, di comprendere il suo sogno di grandezza.. e in questo modo lo faceva rivivere ancora più grande, libero e finalmentefelice tra le sue amate montagne!

 

 

mercoledì 17 maggio 2017

- IO NON HO AMATO CUBA -

"Io non ho amato Cuba, nei tre anni trascorsi a studiare lì. Tanto è vero che mi spostavo in Messico ogni volta che potevo, e alla fine a Cuba ci avrò trascorso un anno e mezzo in totale"

"Io non ho amato Cuba, nei tre anni trascorsi a studiare lì. Tanto è vero che mi spostavo in Messico ogni volta che potevo, e alla fine a Cuba ci avrò trascorso un anno e mezzo in totale. Non l’ho amata perché amo poco le isole, in generale, e perché i cubani mi davano sui nervi, parecchio. E la pativo: l’embargo è uno stillicidio di cose che non funzionano, che non si trovano, che sono difficilissime da fare. L’embargo crea paesi logoranti dove la sopravvivenza è legata all’organizzazione che ti dai, e dove tu, straniero, sei sempre in torto: perché hai più soldi – credono loro – e vieni dalla parte di mondo che la vorrebbe vedere cadere, Cuba, e l’isola risponde togliendoti ogni tratto umano e trasformandoti in un portafogli che cammina, caricaturizzandoti nel cliché dello straniero a Cuba che, nove volte su dieci, non è una bella persona. Io, quindi, ogni volta che potevo prendevo il mio Cubana de Aviación e in 50 minuti ero in Messico, dove la gente era normale e non si aspettava di essere pagata anche solo per rispondere a un “buongiorno”. E dove, perdonatemi, mangiavo: un’insalata che non fosse di cavolo, una minestra che non fosse sempre e solo di riso con fagioli, un frutto che non fosse l’unico che si trova a Cuba di trimestre in trimestre. Un’introvabile patata. Un gelato che non fosse stato scongelato e ricongelato quaranta volte. A Cuba, a meno che tu non voglia spendere molti soldi – e anche lì, uhm – apprendi cos’è la deprivazione sensoriale, dopo mesi passati a provare un sapore solo. Io a Cuba una volta sono quasi svenuta in un supermercato, dopo due giorni trascorsi all’infruttuosa ricerca di un pomodoro. Il corpo ti chiede certe vitamine, certi sali minerali, e tu non riesci a darglieli. Atterravo in Messico e, i primi due giorni, mi strafogavo. Eppure, Cuba funzionava. A modo suo. Davanti a ogni facoltà, all’università, c’era una targa che ringraziava la tale Comunità Autonoma spagnola che aveva finanziato il sistema elettrico. All’interno della facoltà sembrava di essere negli anni 50 dopo un bombardamento: banchi, cattedre, lavagne, tavoli sbilenchi, lampadine a intermittenza, computer e telefoni arcaici, sedie metalliche incongruenti, tutto in rovina, tutto cadente, e in mezzo a tutto questo professori trasandati, sciupati, malvestiti, che però ti facevano lezioni durante cui il tempo volava, che sapevano quello che facevano, che erano bravi. A volte proprio bravi. L’assoluta incongruenza tra lo squallore del luogo e la qualità delle parole. E la serietà, la severità, l’inflessibilità dietro la trasandatezza. La gente che ho visto bocciare all’esame di dottorato. L’incongruenza che tu, straniera, avvertivi tra come si presentava il tutto e la loro altissima considerazione di sé. Perché i cubani hanno un’immensa stima di sé. I cubani si sentono speciali, bravissimi, una specie di razza eletta. E questo non te lo aspetti, da un paese che cade a pezzi. E siccome te la fanno pesare, la loro presunzione, la loro certezza di essere degli immensi fighi, un po’ li strozzeresti e un po’ ti ritrovi ad ammettere che tutti i torti non ce li hanno. Li strozzeresti per i modi, ma poi devi ammettere che la loro forza è tutta lì. Nel sentirsi i migliori di tutti e quelli che non hanno paura di nessuno. E’ difficile, per una come me, arrivere all’aeroporto praticamente in fuga, pregustando il mondo normale che riabbraccerai entro un’ora, sopportare con odio le ultime angherie cubane prima di entrare nell’aereo (un assorbente dieci dollari di cui otto te li metti in tasca tu, negoziante cubana che abusa del mio stato di straniera in difficoltà?) e poi, nel momento esatto in cui l’odio ti trabocca da dentro, vedere gli sportelloni di un aereo angolano che si aprono e i passeggeri che cominciano a scendere: in sedia a rotelle, in barella, uno più sciancato dell’altro. Africani che vanno a curarsi a Cuba. Gente che noi, in Europa, lasciamo morire con indifferenza se non soddisfazione, e che la poverissima Cuba invece accoglie e cura. E tu che fai? Guardi, ti rendi conto, e che te ne fai più del tuo odio? Ti accorgi che sei una straniera viziata o, peggio, che non sei proprio nessuno. Che la Storia, da quelle parti, non sei tu, non passa per l’Europa. Tu sei lo spettatore pagante, se ti va bene, oppure aria, vattene. Cuba mette a fuoco altro da te. L’Europa, in effetti, è lontanissima. Ed è straniante sentire gli europei che parlano di Cuba e dicono sempre, puntualmente, tutto il contrario di quello che vedi tu. Dai massimi sistemi a quelli minimi. Cominciamo dai primi: “E’ una dittatura, la gente vuole fuggire, gli omosessuali perseguitati, i dissidenti“. In realtà, l’immagine di dittatura cubana che si ha all’estero è quella dei primi anni 70, del cosiddetto “quinquenio gris” che la stessa ortodossia politica della Cuba di oggi definisce come “intento de implantar como doctrina oficial el Realismo socialista en su versión más hostil.” La definizione è diEcuRed (la Wikipedia cubana, per intenderci) ma io stessa ho sentito criticare, addirittura ridicolizzare quell’epoca nelle aule universitarie dell’Università dell’Avana. Sono passati 35 anni da allora, gente. Cuba non è quella cosa lì. I cubani fanno il diavolo che gli pare. E pure gli stranieri. Diceva la mia padrona di casa: “Tre cose non si possona fare, a Cuba: le droghe, lo sfruttamento dei bambini e, se sei straniero, una smaccata propaganda antistatale. Per il resto, se vuoi camminare per strada nudo e a testa in giù nessuno ti dice niente.” I dissidenti? Avranno una dignità quelli legati alla Chiesa, suppongo, ma credo che tutti sappiano che le varie Damas en Blanco, per non parlare poi della Sanchez, prendono soldi per ogni manifestazione che fanno (famoso un loro sciopero perché non erano pagate abbastanza). Io non ho conosciuto nessuno, letteralmente nessuno, che ne parlasse con un minimo di rispetto. E’ gente pagata, punto, chiusa la questione. Poi, certo, la gente parla di poltica, immagina il futuro, esprime idee. C’è chi ama (amava, gessù…) Fidel e chi lo detesta/detestava. E chi, la maggior parte, ha sentimenti ambigui, tra l’ammirazione e il rancore. Chi cambia idea ogni secondo. Perché, di fondo, i cubani sono orgogliosi delle loro conquiste. Sono orgogliosi di quello che hanno combinato. E fanno catenaccio, sono uniti, sono isolani. Ecco, sono isolani. Non capisci Cuba se non ti metti in testa questo: che sono isolani, e per loro il mondo è Cuba e tutto il resto c’è se serve, sennò può pure affondare. Vogliono scappare? In realtà vogliono viaggiare. Perché sono isolani, appunto. C’è tanto mondo che non hanno mai visto. E poi, certo, vogliono soldi. Vogliono comprare cose. Vogliono guadagnare, come è umano che sia. Ma poi vogliono tornare. I cubani muoiono di nostalgia, lontano da casa, dalla famiglia, dalla loro gente, dal loro riso e fagioli. Sono uniti da fare schifo, i cubani. E se si sentono minacciati, di più. Ne sanno qualcosa gli USA, che inasprirono l’embargo nel momento esatto in cui cessarono gli aiuti dall’URSS e a Cuba fecero, letteralmente, la fame. Speravano in una rivolta, gli USA. Si ritrovarono con un popolo che si rimboccò le maniche per l’ennesima volta e ne uscì in piedi, come sempre. Inventandosi cose come il pastrocchio di soia, ripugnante intruglio distribuito alla popolazione come “proteinas para el pueblo“. Perché poi sono pratici: il corpo ha bisogno di proteine, vitamine, carboidrati? In qualche modo li ingurgitavano. E nei parchi ci sono gli attrezzi per fare ginnastica, tipo palestra. E se non ci sono medicine, ricorrono alle piante, alla medicina naturale. Ne escono sempre. E si concedono pure il lusso di esportare i loro medici in Venezuela, come altri esporterebbero, chessò, rame, in cambio di petrolio venezuelano. Questo, hanno fatto i cubani: hanno esportato medici in cambio di petrolio. Perché questo è quello che hanno: la loro formidabile, benché odiosissima, gente. Suona retorico, lo so. Odio scriverlo, odio dirlo. Però è vero. Incredibilmente, è vero. Come, poi, questi medici, questi professionisti cubani riescano ad essere bravi nonostante ristrettezze di ogni genere (falla tu, ricerca, in un paese con internet a pedali) io non lo so e non l’ho capito. Ma ce la fanno. Gli omosessuali, poi: a Cuba si celebra il Pride, per dire. Sono finiti gli anni 70, “Fresa y chocolate” fu girato con sovvenzioni statali, non scherziamo. Ma, soprattutto, ricordo una pubblicità progresso dello Stato, dei cartelloni esposti nelle farmacie che mi colpirono molto. Era una cosa sulla prevenzione dell’AIDS e c’era la foto di due gay che si baciavano. Ma a differenza dell’Europa, dove i due gay sarebbero stati giovani e bellissimi, nella foto cubana c’erano due signori di mezz’età, bruttini, normali. Due comuni cittadini, come li avresti potuti incontrare sul pianerottolo. Né giovani, né belli, né magri, niente. Due signori che si baciavano e un pacato invito all’amore che non escludeva la prevenzione. Sobrio. Rispettoso. Bello. Mi sembrò un esempio da seguire. Del resto, Cuba è molto poco patinata. Non ha neanche la pubblicità, se è per questo. Solo pubblicità progresso e grosse scritte motivazionali un po’ ovunque. E’ il buono dell’avere molto poco da comprare, nessuno cerca di convincerti a farlo. Altrettanto stranianti mi paiono poi i discorsi degli stranieri che celebrano i cubani come un popolo di felici danzerini sempre di buon umore e simpatici, uh, che simpatici. Di buon umore? Io, gente stronza come all’Avana ne ho vista poca, in vita mia. Quando diventa chiaro che non li vuoi scopare, che non gli vuoi offrire da bere, che non ti caveranno una lira, tu diventi trasparente ma attorno a te si dispiega la realtà: gente affaticata, incazzosissima, arrogante o, semplicemente, con i cazzi suoi a cui pensare, come è giusto e normale che sia. No, non sono ciarlieri: puoi farti un’ora su un taxi collettivo strapieno senza che nessuno parli con nessuno. Puoi andare mille volte allo stesso bar senza scambiare una parola col barista. Ricevere una gentilezza gratis è rarissimo, ricevere un sorriso non interessato di più. Se sei in difficoltà attiri gli squali. E più è giovane, la gente, e più è stronza. Ecco, questa è una cosa importante: il divario tra i vecchi e i giovani, a Cuba. Con la crisi degli anni Novanta, il sistema scolastico cubano si ritrovò a piedi, come molte altre cose. Con il grosso dei maestri esportati in giro, ci si ritrovò con i ragazzi più grandi a fare lezione ai più piccoli, per dire, e a un generale decadimento dell’istituzione. Per questo e altri motivi, si percepisce uno stacco culturale importante tra i cubani da una certa generazione in giù. I giovani non valgono quanto i loro padri. E questo sarà un problema, in prospettiva. Poi, è vero, la gente fuori dall’Avana (o da Varadero, gessù) è meglio. Molto meglio. Ma i cubani sono, dicevo, isolani. Cocciuti, orgogliosi, quello che vuoi tu, ma non amichevoli. Ma manco per il cazzo, proprio. Se sono amichevoli, anzi, è meglio che ti preoccupi. Avranno i loro motivi, e sono motivi che non ti convengono. Esagero? Sì, un po’. Sintetizzare crea stereotipi, è ovvio. Però, ecco, stereotipo per stereotipo, quello dello stronzo mi pare più azzeccato di quello del felice danzerino. Fermo restando che ballano benissimo, è ovvio. Ma siamo sempre lì: se da una parte io li detestavo – a un certo punto li detestavo proprio tutti, senza eccezioni – dall’altra, poi, mi accorsi in fretta che, nel resto dell’America Latina, potevo usare il mio status di residente a Cuba come un’onoreficenza, una cosa che mi distingueva in positivo dalla massa europea. Soprattutto in Nicaragua. In Nicaragua, quando la gente scopre che vivi a Cuba si emoziona. Manca solo che ti abbracci. Perché, in un modo o nell’altro, tutti debbono qualcosa ai cubani. “Io mi sono laureato a Cuba, gratis!” “Mio padre è stato salvato da un medico cubano!” Una folla. Il Nicaragua trabocca di gente che in gioventù è stata presa e spesata da Cuba per studiare, che ha avuto vitto e alloggio gratis per anni, che ha con l’isola un debito a vita. E se tu vivi a Cuba, pare che ce l’abbiano anche con te, il debito. Ti trattano bene. Ti rispettano. I cubani sono rispettati, in America Latina. Se lo sono guadagnato. E alla fine, è questo: li rispetti. Io li rispetto. Non li amo, ma li rispetto. E quando hai girato per tutto il Centro America, e non ne puoi più di vedere bambini coperti di stracci, bambini che in Chiapas vanno a lavorare trascinandosi zappe più grandi di loro, bambini che circondano il Ticabus a ogni sosta della Panamericana armati di stracci e si mettono a lavarlo in cambio di un’elemosina, finisce che non vedi l’ora di tornarci, a Cuba, e di vedere finalmente bambini normali (la normalità è un concetto molto mobile), con l’uniforme lavata e stirata, belli pettinati con la riga a lato o le treccine e che vanno, tutti, A SCUOLA. Oppure a giocare. E che non lavorano. Mai. Riatterri a Cuba che trabocchi di rispetto. Lo dici al taxista che ti riporta all’Avana e lui è contento, rincara la dose: “E’ vero, noi ci lamentiamo e ci dimentichiamo del buono, ma è proprio vero. Anche i nostri portatori di handicap, non c’è confronto. E che dire della delinquenza, del narcotraffico? Siamo fortunati, noi.” Sì, sono fortunati, loro. Perché è una questione di prospettiva: se nasci povero, malato, sfortunato, è meglio se nasci a Cuba. Molto meglio, proprio. Fuori da lì, muori e muori male. Un povero non vuole essere guatemalteco, haitiano, dominicano. Vuole essere cubano, credimi. Cosa si può dire di Fidel nel giorno della sua morte? Questo, probabilmente: che ha dato un senso allo sfuggente concetto di “cubanità”. Concetto che i cubani inseguivano da un secolo, prima che arrivasse lui. Che ha preso un popolo che lottava per la sua indipendenza da cent’anni – prima contro gli spagnoli e subito dopo, come una grottesca beffa, contro gli USA che ne presero il posto – e lo ha reso, per la prima volta nella sua storia, indipendente. Parliamo un po’ di questo, di cosa è la “cubanità”. I cubani sono figli di due popoli entrambi sradicati, spagnoli e africani, piombati su un’isola dove gli indigeni erano scomparsi praticamente subito e senza quasi lasciare traccia. Sono il risultato dell’incontro/scontro e poi mescolanza di europei venuti a fare soldi e di africani trascinati come schiavi. Sarebbero un’accozzaglia di storie e culture diverse, di radici sradicate, di bianchi e neri, schiavisti e schiavi, violentatori e violentati, se tutte queste storie e queste culture non si fossero mischiate, se tutti non fossero andati a letto con tutti, se l’immenso meticciato che ne è derivato non si fosse unito, a un certo punto, nel nome della lotta per l’indipendenza. Cuba è giovane. Diceva uno dei suoi grandi intellettuali, Fernando Ortiz: “Tutto quello che in Europa è successo nell’arco di millenni, a Cuba è successo in soli quattro secoli“. Cuba non ha storia che non sia di appena ieri, non ha spiritualità come la intendono i popoli antichi, non ha religione che non sia un minestrone di riti mischiati, non ha un colore, una faccia, un’identità che non sia quella dell’essere cubani, appunto. Qualsiasi cosa ciò voglia dire. E diceva sempre Ortiz: “La cubanità non la dà la nascita, in un paese come il nostro, né la residenza, il colore, non te la dà nessun dato oggettivo. La cubanità te la dà la volontà di essere cubano“. E’ cubano chi ha voluto costruire Cuba. E Cuba, quindi, ha cominciato a nascere nel 1860, quando bianchi e neri insieme hanno cominciato a lottare contro la Spagna. Insieme, questo è importante. Lì è stato lo spartiacque. E l’hanno combattuta per 30 anni, fino al 1898. Quando sono arrivati gli USA, che fino ad allora se ne erano rimasti a guardare tifando per lo più Spagna, e hanno sfilato la vittoria ai cubani. Hanno dichiarato guerra a una Spagna ormai sfiancata, l’hanno sconfitta e si sono presi Cuba. I cubani, quindi, invece di una vittoria si sono trovati davanti a un passaggio di consegne. Invece della loro costituzione si sono ritrovati l’Enmienda Platt, e un padrone nuovo a cui obbedire. Però i cubani sono cocciuti, come dicevo. Per i cinquanta anni successivi si sono rotti la testa studiando, protestando, guerreggiando – la rivoluzione fallita del ’30 – e ancora e ancora, tra due dittature e mille governi-fantoccio, mentre la loro economia dipendeva dagli USA, mentre persino il razzismo si accodava a quello degli USA impiantando l’apartheid che gli spagnoli mai avevano conosciuto, mentre sull’isola dilagavano il gangsterismo e la corruzione e le carceri erano piene – allora, mica oggi! – di oppositori politici. E poi è arrivato Fidel, la cui storia è talmente folle che sembrerebbe finta, se non fosse invece reale e documentabile. Si cita spesso “La Storia mi assolverà”, credo il più delle volte senza averlo letto. E’ l’autoarringa con cui lui, ben prima della Rivoluzione, spiegò ai giudici che lo avrebbero condannato il perché dell’assalto alla caserma Moncada, fatto da lui, il fratello piccolo Raul e un manipolo di studenti, studentesse, ragazzi vari, e finito malissimo. E’ la fotografia della Cuba sotto Batista e gli USA. E’ una dichiarazione di intenti – o, all’epoca, di sogni – ed è, soprattutto, l’autoritratto di un gigante. E’ molto difficile leggerlo, sapere che quell’uomo stava entrando in carcere e non sentire un rispetto immenso. Poi vennero l’uscita dal carcere, l’esilio in Messico, l’acquisto di una barchetta (Il Granma) con cui partire, stipandola all’inverosimile, all’assalto di Cuba, lo sbarco (su cui il Che disse: “Fu più che altro un naufragio”), la polizia di Batista che stermina i naufraghi, Fidel che alla fine si ritrova con – boh, vado a memoria – meno di venti superstiti e dice: “Ce l’abbiamo fatta, vinciamo sicuro.” E vince. Sul serio. E, per la prima volta nella sua storia, Cuba diventa uno Stato sovrano. Questo, è stato il punto. E poi vince ancora, e ancora, e ancora. Contro gli USA. Prendendoli sempre, incessantemente, per il culo. Gli USA proiettano propaganda anticastrista sul loro palazzone all’Avana? Castro fa circondare il palazzone da bandiere più alte, una per ogni stato che all’ONU si è dichiarato contrario all’embargo, e così lo impacchetta rendendolo praticamente invisibile. Gli USA mandano navi al largo di Mariel per prendere dissidenti in fuga e mostrarli al mondo? Fidel fa svuotare tutte le carceri e i manicomi di Cuba e ne spedisce gli ospiti tutti da loro, riempiendo gli USA di matti e delinquenti comuni cubani. La lista è infinita, la vicenda umana di Fidel anche. Il rapporto tra USA e Cuba, alla fine, è strano. Ma strano forte. Gli USA e Cuba si amano e si odiano, sembrano parenti in lite. I primi hanno sempre voluto mettere le mani sui secondi, prima cercando di comprare Cuba alla Spagna, poi prendendosela con le cattive. I secondi hanno sempre sofferto l’ingombrante ombra e le mire squalesche dei vicini, e hanno fatto tutto quello che un popolo può umanamente fare per farsi trattare alla pari. Cuba non ha voluta fare la fine di Puerto Rico, tutto qui. Non ha voluto essere una colonia. Ma, alla fine, la sua storia recente è stata comunque pesantemente condizionata dagli USA. Avrebbero chiesto aiuto all’URSS, virando fortemente sulle posizioni sovietiche, se non avessero dovuto difendersi dagli USA? Avrebbero avuto bisogno di un partito unico per 50 anni se non avessero avuto bisogno di essere tanto compatti dinanzi a un nemico tanto potente? E come sarebbe, oggi, Cuba, se non uscisse da 60 anni di embargo? Se è riuscita a dare cibo, salute e istruzione a tutti i suoi cittadini NONOSTANTE l’embargo, cosa avrebbe fatto senza il limite, l’impoverimento a cui è stata condannata? Voi lo sapete? Io no, francamente. Quello che so, è che l’embargo li ha compattati ancora di più. E, conoscendoli, non era difficile da capire. Però ho visto un sacco di cittadini USA, a Cuba, e ben prima che Obama aprisse il paese. Col cappello in mano e colmi di ammirazione, li ho visti. Che arrivano per dei corsi di studio all’università, o da soli, passando per il Messico per non farsi scoprire dalle proprie autorità. Perché gli statunitensi non potevano andare a Cuba per ordine degli USA stessi, ma lo Stato cubano li ha sempre fatti entrare, facendo col visto lo stesso giochino che Israele fa con chi non vuole il timbro d’entrata sul passaporto: te lo dà su un pezzo di carta. E ho visto un sacco di cubani che desideravano andarci, negli USA, e fare soldi, vedere l’abbondanza, visitare i parenti. Sono talmente vicini, in linea d’aria, che sembra incredibile. Io, alla fine – e concludo questa lunga riflessione che oggi mi era proprio necessaria – di Cuba ho capito questo: che la devi rispettare, sennò prendi calci in culo. Tiri fuori il peggio dai cubani, se li prendi contropelo. E che questo orgoglio infinito, cocciuto, cazzuto, fa parte del sentire dell’isola ma Fidel lo ha saputo compattare, dargli sfogo e direzione. Lui ha preso un popolo costretto a passare da una bandiera all’altra e ne ha fatto una cosa diversa: il popolo che ha vinto, quello che si è guadagnato l’indipendenza e l’ha difesa, quello che ha ottenuto le uniche, grandi conquiste sociali dell’America Latina, quello che più si è schierato contro il razzismo, quello che ha fatto sognare mezzo pianeta, quello che non si capisce come abbia fatto ma, in qualche modo, ce l’ha fatta. Ha preso una colonia e ne ha fatto uno Stato. Molto, molto orgoglioso di sé. Ha commesso errori? Certo. Avrebbe potuto fare di meglio? Sì. I cubani hanno sofferto? Sì, ma l’alternativa era essere Puerto Rico o peggio. E avevano combattuto troppo, e troppo a lungo, per potere accettare di essere Puerto Rico. So’ gente orgogliosa, che gli vuoi dire. Per quanto possa sembrare paradossale, io non pensavo che Fidel potesse morire. Pensavo che avrebbe seppellito pure me. Mi fa proprio uno strano effetto, questa morte, ed essendo io una donna del Novecento penso che, stavolta, di giganti non ne rimane proprio nessuno. Ora: i cubani di oggi, i giovani cubani di oggi, saranno all’altezza della storia incredibile che gli lascia Fidel? Io credo che lui abbia cercato anche, riuscendoci spesso, di tirare fuori il meglio dal proprio popolo. Di dargli disciplina, serietà, educazione, cultura. Di fare di un popolo caraibico il popolo serio per eccellenza di tutta l’area. Operazione non facilissima, va detto. Lascia un popolo povero ma viziato, nonostante la cura da cavallo degli anni Novanta. Che non paga bollette, che ha la sopravvivenza assicurata, che si crede ‘sto cazzo. E che è umanamente e culturalmente in declino da un po’. Dove le differenze razziali, dagli anni novanta in poi, si sono accentuate. Da quando le rimesse dell’estero sono diventate vitali, e si dà il caso che il grosso dei cubani emigrati fosse bianco e abbia, quindi, mandato denaro alle famiglie bianche, mettendo loro e solo loro in condizione di partire con la piccola impresa. Un popolo che ha più aspettative che voglia di lavorare, e a cui il turismo – soprattutto quello italiano, e va detto a nostro disonore – ha fatto un gran male. Non so cosa ne sarà di Cuba, se i suoi “difetti” la aiuteranno anche stavolta o se, senza il carisma del suo Padre della Patria, diventerà il paesello qualsiasi che tanti sperano che diventi. Temo la generazione cresciuta negli anni Novanta. Se Cuba va al macero, sarà per loro. Ma se questo dovesse accadere, sarebbe una gran perdita per il mondo intero. Sono degli stronzi, pensano solo agli affari loro, ti venderebbero al macello se solo potessero – e lo fanno appena possono – e tuttavia, pur di essere fighi, hanno dato tanto. Per un’italiana che non li regge ci sono cento cittadini del Terzo Mondo che devono loro qualcosa. Da sessanta anni, rendono il pianeta più vario e più vero. Io credo che si sentano abbastanza male, oggi, i cubani. E che ne abbiano tutti i motivi. Tocca invece invidiare un po’ il Padreterno, se c’è, ché finalmente se lo vede là, ‘sto famoso Fidel, e finalmente può farci due chiacchiere. Non ha aspettato poco, decisamente. E mi piace immaginare che, tra i due, il più curioso sia il Padreterno".

giovedì 6 ottobre 2016

GUATEMALA - Il cuore del mondo Maya -



GUATEMALA – Terra della civiltà Maya, dei templi, della magia, 
dei colori  e della scienza Precolumbiana 
Durante il  mio lungo girovagare attraverso l’America Latina, non poteva mancare il Guatemala,  cuore della civiltà Maya. Un viaggio fatto un po di anni fa di  cui ricordi e  sensazioni sono ancora  scolpiti intatti nella mia mente. 


Ho ripreso i miei appunti scritti su vari foglietti e ho deciso di metterli in ordine e di ripercorrere di nuovo quel viaggio con la mente e con il cuore. Il Guatemala, paese unico, affascinante e per certi versi misterioso. Un paese che ti conquista appena scendi dall’aereo. I colori intensi, l’aria che si respira, le voci della gente, i mercati variopinti   ti conquistano per sempre.


In questo paese ci sono circa 13 .000.000 abitanti stimati, di cui 3 milioni nella sola capitale, Città del Guatemala . La maggior parte vive in zone rurali in un territorio inospitale anche se spettacolare da un punto di vista naturalistico. Leggendo la guida, Città del Guatemala è descritta come pericolosa in realtà però è come tutte le altre città sudamericana. 


Naturalmente è meglio evitare alcuni quartieri. 

Il giorno dopo con un bus coloratissimo mi sposto ad Antigua, qui è tutta un’altra cosa . E’ una bellissima città coloniale, linda e pulita, cosi tutto in ordine e perfetto  che sembra rifatta. Circondata da tre stupendi e pericolosi vulcani che sono: Agua, Fuego e Acatenango. Questi non sono i soli vulcani che caratterizzano questo paese. Il Guatemala è definito una pentola che bolle, anche se tutti gli altri vulcani per il momento sono inattivi.   Antigua è magnifica , una cittadina tranquilla che invita al rilassamento totale. Dopo tre giorni il Guatemala on-the-road, che è quello che  si deve fare, ti porta poi su per le montagne, su strade complicate, in villaggi tutti diversi ma con una caratteristica comune: sono tutti colorati,  le persone sono colorate, i mercati sono colorati, le case, le chiese sono colorate perfino i cimiteri sono colorati. Come se i colori cancellassero i tanti problemi legati alla povertà e alla miseria della vita. Il viaggio successivamente mi porta sul lago di Atitlán. Dall’alto di una strada di montagna si gode  una vista spettacolare,  si scende verso il lago precisamente  a Santiago di Atitlán.


l’atmosfera che si respira è magica. Il lago sembra d’argento, i vulcani che lo circondano si specchiano dentro formando nell’acqua giochi di colori meravigliosi. Mi sdraio sul prato in riva al lago e osservo il via vai di donne Maya impegnate  nella loro vita quotidiana. C’è chi lava i panni, chi mercanteggia, chi fa tappeti, chi semplicemente con la scusa di venderti qualcosa ti chiede da dove vieni, chi sei, cosa fai. 



Dopo un lunghissimo viaggio sono finalmente a Tikal. La magia del luogo e quella privata emozione  che ti prende guardando il sole che scende sulla foresta e arrossa le vecchie pietre degli altri templi Maya è veramente qualcosa difficile da descrivere. 




Prima che il verde inghiottisse tutto, lasciando fuori solo i grattacieli del tempo tra cui i 74 metri del tempio del Giaguaro e tutti gli altri, vi era gente che conosceva la matematica, lo zero, i pianeti e le stelle, popolo che aveva diviso il tempo con la precisione di un astronomo moderno, che faceva funzionare una società solida ma mistica, in un connubio fantastico tra realtà  e profonda sacralità, che aveva ideato templi e palazzi reali tanto solidi da resistere ancora oggi come non resisteranno, probabilmente, i grattacieli moderni. Ad oggi si vedono villaggi, case sbriciolate dal tempo, frammisti alla cultura, cancellata dalle invasioni e ancora dal tempo  fin che resti a Tikal il Guatemala è lontano. Tikal è il sito archeologico più bello, importante e visitato del Guatemala. 


Occupa almeno 20 km quadrati e si calcola che ai tempi del massimo splendore fosse abitato da almeno 50.000 persone. E’ stata la capitale , la città più potente. Le hanno costruito un parco protetto intorno, decine di squadre lavorano tutti i giorni per ripulire templi palazzi ancora sepolti o soffocati dalla vegetazione . Scendi dai gradini del tempio, lasci la magia, un tramonto che ti sembra il primo tramonto della tua vita,  il ritorno verso il tuo Hostal  quasi al buio nella foresta, con le scimmie che saltano e urlano sugli alberi, una tarantola enorme  che ti attraversa il sentiero, aggiungi ancor nuove emozioni.


lunedì 3 ottobre 2016

- IL RITORNO SULLA RUTA MAYA -

MEXICO - La terza volta -Il ritorno Sulla Ryta Maya

Dopo 15 anni, quest'anno ritorniamo per la terza volta  in Mexico, un paese che ci è rimasto nel cuore. Ritornare nel regno del misterioso popolo Maya per  approfondire e scoprire altri luoghi che tempo fa durante altri due viaggi in Mexico avevamo  giusto sfiorato. Onnipresente sui depliant dei maggiori tour operator, la classica vacanza messicana prevede un soggiorno al mare, possibilmente Cancun o Playa del Carmine (questi due luoghi nel 1990 erano quasi sconosciuti almeno Playa Del Carmine era un piccolo villaggio con un solo Hotel e qualche spartana capanna), escursioni ai siti Maya più conosciuti (di solito Tulum e Chichen Itza) e infine, se si desidera vedere una Città coloniale, un trasferimento a Merida. Anche noi, anni fa avevamo riservato allo Yucatan solo la parte finale di un lungo viaggio nelle regioni centromeridionali. Una seconda volta lo avevamo dedicato alla scoperta del Nord e della Baya California non ci eravamo  molto discostati da questo copione. Ma la penisola dello Yucatan offre di più: Siti Maya sperduti all'interno di remote riserve naturalistiche, meravigliose città coloniali patrimonio dell'UNESCO e le tradizioni popolari dei lontani villaggi. Poi ritornare per la seconda volta  in Belize e dedicarlo questa volta  ai siti Maya per terminare il viaggio in uno dei numerosi Keye.



I viaggi in Mexico sono stati  indimenticabili, vissuti in luoghi dove leggende e storia hanno fatto di questo paese un luogo come nessuno altro al mondo. L'emozione di "vivere" per diversi giorni, nelle alte vette a Crel nello stato di Chihuahua. Alloggiare in piccole locande dove il nome del paesino che ti ospita non è scritto nemmeno sulle carte geografiche locali. 


Effettuare i vari spostamenti su degli autobus e dividere il viaggio con i locali che oltre alla famiglia o a qualche parente portano con sè nel bus le galline e maialini. Scendere sulla costa Mar De Cortes con il famoso treno del Canyon del Cobre. Una linea ferroviaria che unisce il Pacifico partendo da Los Mochis, nello stato di Sinaloa, fino alla città di Chihuahua. Attraversare paesaggi spettacolari, giganteschi ed impressionanti canyon chiamati barrancas. In questo tezo viaggio l'abbiamo dedicato alla scoperta di quei siti Maya ancora sconosciuti e fuori (forse) dai soliti circuiti turistici. più grande  barriera corallina del mondo-
























660 km che Chihuahua attraverso uno dei più spettacolari paesaggi del Mexico la Sierra Tarahumara arriva a Los Mochis sul mar De Cortes. i 170 Km che vanno da El Fuerte a Bauchivo ha un dislivello di 1600 m. e sale ancora di 800 m. per raggiungere Devasidero e da li a Creel


                                 Seconda parte del viaggio nella Baya California del Sud



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martedì 5 luglio 2016

VIAGGIO NEL PAESE DEGLI INVISIBILI


Io credo che i bambini nel mondo debbano essere liberi di crescere e diventare adulti, in salute, pace e dignità.
(Nelson Mandela)

Premetto l’attentato terroristico in Bangladesh, con la morte di nove italiani merita una condanna senza SE e senza MA. La storia del terrorismo Islamico finanziato e sostenuto per anni dai settori imperialisti che finanziano paesi ormai noti e amici dell’occidente per la destabilizzazione di interi paesi, che uccide persone innocenti, che vuole far piombare l’umanità in un medioevo senza precedenti. Un terrorismo che colpisce alla rinfusa, che non ha nulla a che fare con rivendicazioni progressiste e neanche lontanamente sostenibili o giustificabili, che è riflesso dell’imperialismo e non certo lotta per l’emancipazione, la liberazione dei popoli. Oggi di fronte a questa ennesima strage avvenuta in un paese tra i più poveri del mondo, un paese che spesso è afflitto da catastrofe naturali,  dove la popolazione vive in condizioni disumane mi viene difficile  unirmi al solito coro della stampa, della televisione, dei social network che piangono, che sono pronti a fare crociate di vario genere. Io oggi sono e voglio andare contro corrente e farmi alcune domande . A Dacca non ci sono belle spiagge, non ci sono monumenti, non ci sono attrazione turistiche,  praticamente non c’è niente,  questa è veramente una città brutta e poverissima.
Il Bangladesh ha però una ricchezza che attrae e giustifica la presenza di tanti imprenditori ed è quella che è un paese ricco di bambini e bambine di gente poverissima che lotta per la propria sopravvivenza,  dove la schiavitù e tollerata, dove non esistono diritti umani, dove è facile comprarsi un bambino o bambina e farlo/a prostituire perché anche questa è lecito.  Il Bangladesh è uno dei pochi paesi musulmani dove la prostituzione è legale e nel bordello più antico del paese, Kandapara, vivono oltre 700 donne.

Le ragazze vengono impiegate giovanissime, ancora bambine, dai 12 anni di età.

Spesso vengono vendute dalle loro famiglie, troppo povere per mantenerle; oppure, poverissime, entrano nel bordello per saldare dei debiti, ma dopo averli estinti non sono in grado di reintegrarsi nella società, ormai stigmatizzate come prostitute e impossibilitate a trovare un altro lavoro per il resto della loro vita.

In questa realtà, assoldare centinaia di bambini/e rinchiuderli in piccole stanze, farli lavorare notte e giorno senza mai uscire è legale, poi se per caso succede un incendio o  crolla come è avvenuto sempre a Dacca  (qualcuno ricorderà) nel 2013 dove oltre 1100 operai, tra cui donne e bambini morirono nel crollo di una fabbrica. Allora un’importante catena di abbigliamento italiana risultò coinvolta, in quanto appaltatrice di decine di migliaia di capi, inchiodata dalle foto del crollo e dalle etichette ben evidenti, nonostante un tentativo iniziale di negare ogni coinvolgimento.

Ecco forse in tutto questo si riesce a trovare le risposte della presenza di tutti questi imprenditori,  (mi viene difficile anche definirli imprenditori forse è meglio definirli schiavisti)   Naturalmente non vi è alcun legame e nessuna giustificazione rispetto all’attentato dell’Isis sia chiaro, ma non si parli di filantropia, o passione per i viaggi. Alcune stime economiche hanno verificato che sui capi di abbigliamento prodotti tramite subappalti nel sud est asiatico le grandi marche riescano a ricavare un profitto di oltre venti volte il costo pagato alla fabbrica che esegue il lavoro. Una polo ad esempio, venduta in Italia a 80 euro ne costa appena 4, 5. Di questi una parte misera finisce ai lavoratori, pagati meno di 2 euro al giorno.

Per capire cosa sta accadendo in Italia basta farsi un giro nei distretti tessili di un tempo oggi ridotti a un cumulo di macerie o rilevati da aziende che usano manodopera straniera costituendo una sorta di zone economiche speciali (Prato), tollerate dallo stato, in cui le condizioni di lavoro del sud est asiatico sono di fatto importate in Italia.
Sappiamo cosa accade, sappiamo quanto gravi siano le responsabilità delle aziende italiane, dell’elitè della moda, e del made in Italy in tutto questo. In Bangladesh, come dicevo prima oggi ci sono migliaia di operai sottopagati schiavizzati che lavorano in condizioni disumane. Migliaia di Iqbal Masih, il bambino pakistano che denunciò la condizione di sfruttamento del lavoro minorile.  Le imprese italiane lo sanno.  Non sono lì a fare filantropia, non sono li per viaggi di piacere, per conoscere altre culture ma per reclutare schiavi.  Il mio pensiero va invece a quella schiera di volontari come quella di  Terre des Hommes, l'onlus e a tutte quelle persone che cercano di portare un aiuto, un sorriso a queste popolazione a questi bambini/e


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mercoledì 29 giugno 2016

MEXICO - BAYA CALIFORNIA – Isla de Espiritu Santo

MEXICO - BAYA CALIFORNIA – Isla del Espiritu Santo


Ho già scritto su questo Blog della Baya California, questo post voglio dedicarlo esclusivamente all’Isla Espirutu Santo e allIsla Partida.  Due gioielli incontaminati inabitata dall'uomo che sicuramente non si dimenticheranno maiL'Isla Espíritu, la più vicina alla penisola di Pichilingüe raggiungibile da La Paz, è lunga diciannove chilometri e larga cinque. Qui si possono ammirare meravigliose baie, una abbondante vita acquatica, rettili terrestri, uccelli e anfibi. Questo deserto di oltre 9.000 ettari rappresenta uno degli ecosistemi meglio conservati di tutta la Baja California e può vantare cinque specie di mammiferi e rettili, tra i quali il bassarisco, molto simile ai procioni, la lepre dalla coda nera e un tipo di scoiattolo di terra, tutti quanti originari di quest’isola.


Gli archeologi hanno trovato delle prove che testimoniano che gli uomini misero piede per la prima volta su quest'isola ben 40.000 anni fa. L'Isla Espíritu Santo è un incanto per quanto riguarda la protezione della natura e l'evoluzione naturale. Le uniche creature che reclamano questa terra come propria sono i leoni marini, le razze, i delfini, le tartarughe e, in determinati periodi dell'anno, le balenottere grigie e gli squali grigi. 


A livello morfologico, la Isla Espiritu Santo è il risultato di un processo di sedimentazione vulcanica, che ha dato origine nel corso dei secoli a una conformazione del terreno dove la lava di colore nero si alterna alle sfumature rosa della polvere vulcanica. Grazie al processo di modellazione ed erosione, l’isola regala itinerari da sogno per gli amanti del trekking, con sentieri che si snodano tra i canyon e le rocce regalando panorami mozzafiato sulla baia.


Protetta dall'UNESCO in qualità di riserva della biosfera, l'isola fu venduta al governo messicano nel 2003 grazie all'impegno e alla cooperazione di numerose organizzazioni senza fini di lucro che raccolsero ben 3 miliardi e trecentomila dollari per rimborsare i proprietari delle terre passate nel demanio dello stato. Oggi l'isola è amministrata dalla Comisión de Áreas Naturales Protegidas de México, la commissione che si occupa proprio delle aree naturali protette messicane, che sta collaborando con associazioni senza fini di lucro per proteggere altre dieci isole private presenti nel golfo.

Ci sono diverse compagnie per effettuano tour sull’isola, la cosa più emozionante e campeggiare sull’isola. L’afflusso è regolamentato attentamente e le guide pongono massima attenzione al rispetto delle regole. In cambio in questo  luogo magico si possono ammirare acque cristalline e colori meravigliosi; le rocce sembrano essere scolpite per sorprendere il viaggiatore e strati di colate laviche si alternano creando surreali composizioni che si riflettono nel mare creando un’atmosfera magica che difficilmente si riesce a dimenticare .



UN PAESE UNICO: SAN LORENZO BELLIZZI

UN PAESE UNICO:  SAN LORENZO BELLIZZI "Non c’è niente come tornare in un luogo che non è cambiato,  per rendersi conto di quanto sei ca...