Non dirmi quanti anni hai, o
quanto sei educato e colto, dimmi dove hai viaggiato e che cosa sai. (Maometto)
Petra,uno
dei luoghi più suggestivi e più visitati del Pianeta. L’antica città giordana fondata dai
Nabatei è rimasta nell’ombra fino al 1812 quando il viaggiatore svizzero Johann Ludwig Burckhardt, travestito da
beduino, si imbatté in questo straordinario capolavoro di pietra. Il rosso
della terra, il giallo e il verde della vegetazione contrastano meravigliosamente
con i monumenti di ogni tipo, letteralmente scavati nella roccia. Tracce di una
civiltà sparita nel nulla, quella dei nabatei, della quale restano: anfiteatri, tombe ed il
famosissimo monastero di Petra. L'antica città di Petra, patrimonio
dell'UNESCO, è una costruzione davvero unica: basti pensare che è stata costruita “al contrario”, ossia partendo dagli apici per poi giungere alle fondamenta..
La nostra
visita inizia dalle prime ore del mattino per non perdere i giochi di luce e di colori che
l’alba sa regalare. All’ingresso del sito troviamo baracchine di souvenir definite “Indiana Jones gift shop” uno dei motivi per cui milioni di persone nel mondo desiderano visitare Petra.
Da subito siamo avvicinati dabeduini
che ci invitano a visitare Petra a dorso di uncavallo o di un asino. Noi gentilmente rifiutiamo perché
vogliamo scoprire e godere fino in fondo questo magico posto percorrendolo a piedi.
Il percorso che inizia partendo da una vasta area aperta da subito lascia intravedere l'imponente Tomba degli Obelischi che è la prima delle tombe
rupestri che caratterizzano tutto il sito.
Procedendo in avanti arriviamo al Siq e qui vediamo già alcune persone in calesse di ritorno dalla città vecchia e sono solo
le 8 del mattino. Ci addentriamo nel Siq, questa gola
profondissima, stretta e tortuosa, scavata nella roccia che, complice anche quel
poco di sole che filtra, diventa di mille colori, da rosa ad arancio a
violacea. L’ingresso al Siq una volta aveva una porta monumentale, ad arco, di
cui oggi rimangono solo i segni scavati nella roccia. Un uomo vestito da
soldato nabateo ci invita ad entrare.
Lungo il
percorso attraverso la gola incontriamo tombe rupestri, rappresentazioni della
divinità nabatea Dusharà, ciò che resta di una carovana di uomini e cammelli
scolpita nella roccia. Ad ogni
curva cresce l’aspettativa, l’emozione, la tensione, continuiamo a scattare foto perché ad ogni angolo la luce cambia e vogliamo portare a casa tutto quello che ci colpisce comprese luci e colori. Dopo più di
un km intravediamo la luce! Attraverso una piccolissima strettoia che si apre
gradualmente, scorgiamo dapprima come un bagliore che mana mano prende forma fino a lasciare intravedere in tutto il suo splendore il Tesoro che ha reso Petra celebre in
tutto il mondo!
Nel 1985
è stata riconosciuta Patrimonio mondiale dell’Umanità dall’Unesco
e, nel 2017, è entrata nella lista delle Sette meraviglie del
mondo.
L'ingresso
all'antica Petra, dopo aver percorso il Siq, è qualcosa di magico ed
emozionante
L’emozione è
forte, quasi ci si commuove, perché per quante volte l’abbiamo vista in
fotografia o in TV, quest’immagine dal vivo lascia in ogni caso senza fiato! Il
Tesoro illuminato dal sole che contrasta col buio dell’ultimo tratto del Siq,
la piazza gremita di gente e i dromedari che passeggiano… l’impatto è davvero
molto forte, e ci lascerà sicuramente il segno. Inutile che descriva la
facciata di questa meraviglia scavata nella roccia, che non è un tempio, non è
un palazzo, ma…una tomba! L’interno è, infatti, una semplice stanza quadrata
con delle nicchie nelle pareti. Ciò che colpisce dell’interno sono le venature
della roccia: arancio, rosa e viola si inseguono e creano sfumature
incredibili proprio perché del tutto naturali.
A questo punto
procediamo all’esplorazione della capitale Nabatea, e per prima cosa ci
inoltriamo nella Via delle Tombe. Parlo di esplorazione e non di visita, perché
la nostra è una costante scoperta delle meraviglie che si incontrano ad ogni
passo, un continuo guardarsi intorno estasiati, un voler procedere avanti cercando
di scoprire quanto più possibile di ciò che ci circonda.
Si apre davanti a noi
il teatro, ovviamente scavato nella roccia, e perciò di uno splendido colore
rosa. Il percorso brulica di gente: turisti, beduini con i dromedari, bambini
con gli asinelli. Sicuramente si perde l’atmosfera magica che invece ci
dovrebbe circondare, quell’atmosfera che ha fatto sì che il segreto di Petra
rimanesse nascosto per tanto tempo.
Cominciamo
la scalata verso le tombe probabilmente reali, splendidamente intagliate nella
roccia, imponenti e maestose, che niente hanno da invidiare al Tesoro. La prima
che incontriamo è la cosiddetta tomba dell’Urna, che in età bizantina fu
trasformata in chiesa, e che davanti a sé ha una terrazza da cui si domina
tutta la vallata. Seguono la tomba Corinzia, molto simile al Tesoro, ma non
così ben conservata, e la tomba Palazzo, un po’ diversa dalle altre: non è
coronata come le altre fin qui viste da un timpano spezzato con in mezzo una
tholos o un’urna, ma ha una successione di 5 piani in cui quello superiore è
sempre alto la metà di quello inferiore.
Proseguiamo discendendo un sentiero
che ci porta in un angoletto nascosto, in cui finalmente assaporiamo un po’ di
pace: la folla dei turisti è lontana, non si avventura fino qui e noi possiamo
goderci in tutta serenità, bucolica direi, la tomba rupestre diSextus
Florentinus, governatore di Petra che morì intorno al 129 d.C. La
tomba è senz’altro più modesta delle tombe reali precedenti, ma mostra la
volontà di non rompere con le tradizioni funerarie della città, nonostante
l’iscrizione in latino ci faccia capire immediatamente chi è il personaggio cui
siamo davanti. Dietro di noi, in lontananza, scorgiamo il villaggio di beduini
che è stanziato all’interno del parco e sulla nostra sinistra vediamo un gregge
di pecore in un riparo sottoroccia che un tempo fu una tomba.
Scendiamo finalmente nella città
nabatea, percorriamo una via colonnata che costeggia il torrente Wadi Musa.
Sulla sinistra si apre il grande tempio, con i particolari capitelli a testa di
elefante. Nel suo complesso era inserito anche un piccolo teatro, unodeionper le riunioni del Consiglio
cittadino. Di fronte c’è il tempio dei Leoni alati, così chiamato per i suoi caratteristici capitelli.
Varcata una porta monumentale entriamo nel santuario
del tempio di Dusharà, di cui si conserva in parte l’elevato, e che risulta
pertanto decisamente imponente e in posizione un po’ soprelevata, per indicare
l’ascensione verso il dio. Lo spiazzo antistante è un parcheggio di dromedari…
Dobbiamo decidere se salire fino al
monastero oppure no. Il caldo si fa sentire, per arrivare fino in cima
occorrono minimo quarantacinque minuti. Prima di decidere ci riposiamo su
alcuni sassi e osserviamo il via vai dei ragazzi che ci invitano a salire al
monastero con il cavallo.Decisione
presa, si parte. Ci inerpichiamo per una stretta e tortuosa salita, a tratta
costituita da scalinate intagliate nella roccia, costeggiando precipizi
piuttosto profondi, cercando di scansare gli asinelli condotti da ragazzini
beduini, che scendono a rotta di collo lungo questo sentiero che è l’unica via
per salire. Ogni tanto ci voltiamo indietro, il paesaggio è mozzafiato: Lo
sguardo spazia lontano, fino alla tomba Palazzo, che ora è lontanissima e
minuscola. Quando giungiamo in vetta, non può non sfuggirci un “ Oooohhh che
meraviglia!” Tanta fatica per arrivare fin a qui, ma ne è valsa la pena.
Il monastero, la cui
sommità è sovrastata da una poderosa urna, su cui la gente può anche salire (a
proprio rischio e pericolo! Qui non è ancora arrivata una normativa sulla messa
in sicurezza dei siti archeologici…), è persino più grande del Tesoro, e di
sicuro non lascia delusi! Ritorniamo sui nostri passi, ridiscendiamo la stretta
e tortuosa via, poi rifacciamo indietro il percorso fino a tornare al Tesoro, che
ora, non più baciato dal sole, mostra la tinta rosa della roccia nella
quale è scolpito. Ripercorriamo a ritroso il Siq e torniamo soddisfattissimi al
nostro hotel, dove ci scambiamo le nostre impressioni.
La giornata di oggi è stata
lunga e intensa, siamo tutte e due decisamente provati, ma felice di quello che
abbiamo visto e delle delle sensazioni provate.
WADI RUM Usciti dalla dogana, ci siamo diretti verso la fantastica zona dello Wadi Hisma (RUN) o meglio
conosciuta come Hisma Valley (Valle della Luna), un vasto territorio
caratterizzato da imponenti e suggestive formazioni
rocciose color ocra che emergono dalla
sabbia dorata. Mentre la jeep si addentrava in quel
mare di sabbia e si fermava poi accanto a quelle cattedrali di roccia, ci sentivamo pervasi da una
gioia mista ad emozione... ...provavamo una gratitudine effervescente per tutto quello che ci circondava, perché potevamo
camminare sulla sabbia, sui sassi dei costoni, potevamo guardarci intorno
in
quella infinita distesa che ci circondava, tra
quella miriade di formazioni rocciose da capogiro. Ne avevamo visti di deserti,
di dune, forse anche luoghi più pittoreschi, ma qui era un’altra cosa perché ci sembrava che la natura stessa ci
sussurrasse un messaggio.. l’emozione è un dono… sentivamo il piacere di
esistere e proprio questa sensazione di esistere e di poter vedere diventava ad
ogni passo più viva ed intensa, tanto che camminavamo quasi sfiorando il terreno per non rompere l’incanto di quei momenti.
Attorno a noi le rocce avevano le forme più strane, intravedevamo un nave
pronta per salpare, figure di animali mostruosi, una
sequenza di donne velate, ci sovrastavano perché potevamo immaginare di tutto,
ci trovavamo in una Angkor che l’uomo non aveva mai costruito, tra palazzi
naturali, cesellati che emozionavano e nello stesso tempo suscitavano rispetto
ed ammirazione.
Quale architetto anche tra i più valenti sarebbe riuscito ad
ideare simili meraviglie? Dapprima questo paradiso naturale di rocce e
sabbia aveva una colorazione rosata, rassicurante, poi man mano il giorno
avanzava verso il crepuscolo, i faraglioni di roccia diventavano di un colore
bruno, più intenso e l’atmosfera surreale acquistava un aspetto di “bellezza
tenebrosa” giocavamo con le nostre ombre che si proiettava sulle pareti
rocciose.
Poi dopo aver goduto del tramonto con la nostra jeep abbiamo
ripercorso l’uadi e salendo e scendendo sulle dune di sabbia, tremando di
eccitazione se la discesa era troppo ripida, abbiamo ripreso la via del
ritorno.
La sera poi, nell’accampamento cenando e festeggiando
intorno a un fuoco in compagnia dei beduini che ballavano cantavano
e fumavano il nerghilé, si viveva un momento magico di fraterna
comunicazione.
Eravamo liberi sotto un cielo stellato...quante stelle! E chi li ricordava più. con le sole
nostre voci che riempivano il silenzio della natura.. liberi
di essere e di
sognare quello che volevamo. Una magia.
Wadi Rum
Lasciamo Wadi Rum e ci dirigiamo verso quello che si rivelerà una vera magia...
Un affascinante viaggio diun week end alla scoperta del mondo di Ludwig II
Due giorni per
assaporare la magia di quella parte di Germania Bavarese conosciuta come la
Romantische Strasse “La strada romantica” ed il Castello di
Neuschwanstein (meta del nostro viaggio), fatto costruire da Ludovico II di
Baviera.Ci è apparso
fantastico già da lontano, spuntava su una sporgenza rocciosa, maestoso eppure slanciato
ed elegante, con le sue torri e le innumerevoli guglie sottili che spuntavano dalla
pineta. Era una sensazione unica che lasciava senza fiato, ci trovavamo di
fronte ad un vero castello delle favole.. che si
inseriva in un mondo irreale di sogno e realtà. Persino Walt Disney ne era rimasto
affascinato tanto da prenderlo come modello per il castello del suo celebre
film d’animazione “La
bella addormentata nel bosco”! Questo castello, incredibile e suggestivo, era
stato costruito su una roccia sopra la gola di Pollac con vista sulle montagne
che guardavano il Tegelberg, un monte alto quasi 2000 metri..simboleggiava
tutta la forza, il fascino della cultura e della regalità medioevale, ma nello
stesso
tempo esprimeva
quasi, in tutta la sua bellezza, una sorta di profonda drammaticità. Dopo aver
fatto un 20 m di fila riusciamo ad acquistare
i biglietti e ci dirigiamo a piedi
attraverso un bosco di pini. Dopo una mezzoretta di cammino arriviamo davanti
all’ingresso. Questoci ha dato l'impressione
di un salto indietro nel tempo in una vera corte medioevale, nonostante la
relativa modernità di quella costruzione. Entriamo nel castello, ci viene
consegnato un audio guida e in gruppo iniziamo la nostra visita. Anche la
realizzazione degli interni mi è apparsa suggestiva, un simbolo dell’idealismo
tedesco, infatti i suoi affreschi che riempivano le pareti ed i soffitti, si
orientavano alle saghe cavalleresche tedesche e nordiche e ancora al mondo
ideale di Richard Wagner da cui il re era
Castello di Neuschwanstein
stato da sempre
affascinato. La sala dei cantori, per esempio, una specie di sala delle feste,
fatta ad imitazione della sala della Wartburg presso Eisenach, era ornata da scene
tratte dal poema di Parsifal e dalla saga del Gral. La “sala del Trono” poi,
uno spazio sacro della
monarchia, era tutta affrescata in blu e oro ed era stata realizzata imitando
addirittura le basiliche bizantine e paleocristiane. Ci hanno detto che non
venne mai usata dato che il 13
Giugno del 1886 Ludwig fu trovato morto nel lago di Starnbergersee… in modo
tuttora misterioso.
Castello di hohenschwangau
Tutto in quel
castello era da ammirare e certo il breve tempo a disposizione per la visita
non dava spazio alla riflessione ed alla osservazione dei particolari che erano
troppi.. quel re solitario, per esempio aveva una predilezione per le camere da
letto sfarzose, per gli angoli dove potersi ritirare a riposare come quello del
“Cigno”. Ci hanno anche spiegato il significato di questo animale ricorrente
nei vari castelli dei reali di Baviera, era un simbolo che campeggiava nello
stemma dei signori di Schwangau perchè rappresentava la purezza e la bellezza e
inoltre per Ludwig II era legato all’opera di Wagner, il Lohengrin, dove il
cigno occupava un posto da protagonista! Una visione di insieme, del castello
si ha dal “Ponte di Maria” voluto dal padre di Ludwig, Massimiliano…...un tempo
era una passerella di legno che sovrastava la gola di Pollat, ora era un ponte
in ferro che si tendeva ardito ad arco sopra la gola e la cascata ad un’altezza
di ben 91 metri.
LUDWIG
Ludwig II è stato deposto
dal trono l'8 giugno 1886: una commissione medica presieduta dal dottor
Bernhard von Gudden lo dichiara malato di mente. Il mattino del 12 giugno il
sovrano viene condotto in carrozza da Neuschwanstein a Berg, un piccolo
castello sulle rive del lago di Starnberg trasformato per l'occasione in una
sorta di prigione: inferriate alle finestre, spioncini da ogni parte, porte che
si potevano aprire solo dall'esterno...Sua Maestà è malato di mente ad un grado molto
avanzato, cioè soffre di quella forma di malattia mentale che gli psichiatri
ben conoscono per esperienza col nome di paranoia (pazzia). 2. Data questa forma
di malattia, il suo graduale e progressivo sviluppo e la sua già molto lunga
durata, che si estende su un gran numero di anni, Sua Maestà è da dichiarare
inguaribile e si può prevedere con sicurezza un ulteriore decadimento delle
forze psichiche. 3. A causa della malattia la libera volizione di Sua Maestà è
completamente esclusa, egli è da considerare impedito nell'esercizio del
governo e tale impedimento durerà non solo più di un anno, ma per tutta la
vita.
Nel pomeriggio del 13
giugno, Domenica di Pentecoste, Ludwig chiede di poter fare una passeggiata e
il dottor von Gudden lo accompagna, senza alcun infermiere o guardia al
seguito: il sovrano appare sereno e tranquillo e il suo medico non ritiene
necessaria la presenza di una "scorta". Passate alcune ore, i due non
fanno ritorno e scatta l'allarme. Partono le ricerche prima intorno al
castello, poi lungo il parco e, finalmente, verso le 23 vengono ritrovati sia
Ludwig che il medico: sono tutti e due morti nelle acque del lago!
La morte viene subito classificata come
annegamento causato da un incidente ma l'autopsia ha poi stabilito che non
c'era acqua nei polmoni del sovrano. “IL MISTERO CONTINUA”
(estratto della perizia medica
Quando Ludwig nel
1886 fu dichiarato malato di mente ed interdetto, lasciando il suo castello e consapevole
di non tornarvi più disse al suo servitore fedele Stich ”Caro Stich, custoditeper
me queste stanze come un santuario. Non lasciate che siano profanate dai
curiosi, perché qui ho voluto trascorrere le più amare ore della mia vita!”
A questo
punto mi viene da pensare che cosa avrebbe detto il re della folla incredibile
di turisti nelle sue stanze… si sarebbe reso conto che non si poteva parlare di
profanazione?
Tutta la folla in
visita al castello, stava cercando di capirlo, di vedere la bellezza di cui si era
circondato, di comprendere il suo sogno di grandezza.. e in questo modo lo
faceva rivivere ancora più grande, libero e finalmentefelice tra le sue amate
montagne!
"Io non ho amato Cuba, nei tre anni trascorsi a studiare lì. Tanto è vero che mi spostavo in Messico ogni volta che potevo, e alla fine a Cuba ci avrò trascorso un anno e mezzo in totale"
"Io non ho amato Cuba, nei tre anni trascorsi a studiare lì. Tanto è vero che mi spostavo in Messico ogni volta che potevo, e alla fine a Cuba ci avrò trascorso un anno e mezzo in totale. Non l’ho amata perché amo poco le isole, in generale, e perché i cubani mi davano sui nervi, parecchio. E la pativo: l’embargo è uno stillicidio di cose che non funzionano, che non si trovano, che sono difficilissime da fare. L’embargo crea paesi logoranti dove la sopravvivenza è legata all’organizzazione che ti dai, e dove tu, straniero, sei sempre in torto: perché hai più soldi – credono loro – e vieni dalla parte di mondo che la vorrebbe vedere cadere, Cuba, e l’isola risponde togliendoti ogni tratto umano e trasformandoti in un portafogli che cammina, caricaturizzandoti nel cliché dello straniero a Cuba che, nove volte su dieci, non è una bella persona. Io, quindi, ogni volta che potevo prendevo il mio Cubana de Aviación e in 50 minuti ero in Messico, dove la gente era normale e non si aspettava di essere pagata anche solo per rispondere a un “buongiorno”. E dove, perdonatemi, mangiavo: un’insalata che non fosse di cavolo, una minestra che non fosse sempre e solo di riso con fagioli, un frutto che non fosse l’unico che si trova a Cuba di trimestre in trimestre. Un’introvabile patata. Un gelato che non fosse stato scongelato e ricongelato quaranta volte. A Cuba, a meno che tu non voglia spendere molti soldi – e anche lì, uhm – apprendi cos’è la deprivazione sensoriale, dopo mesi passati a provare un sapore solo. Io a Cuba una volta sono quasi svenuta in un supermercato, dopo due giorni trascorsi all’infruttuosa ricerca di un pomodoro. Il corpo ti chiede certe vitamine, certi sali minerali, e tu non riesci a darglieli. Atterravo in Messico e, i primi due giorni, mi strafogavo. Eppure, Cuba funzionava. A modo suo. Davanti a ogni facoltà, all’università, c’era una targa che ringraziava la tale Comunità Autonoma spagnola che aveva finanziato il sistema elettrico. All’interno della facoltà sembrava di essere negli anni 50 dopo un bombardamento: banchi, cattedre, lavagne, tavoli sbilenchi, lampadine a intermittenza, computer e telefoni arcaici, sedie metalliche incongruenti, tutto in rovina, tutto cadente, e in mezzo a tutto questo professori trasandati, sciupati, malvestiti, che però ti facevano lezioni durante cui il tempo volava, che sapevano quello che facevano, che erano bravi. A volte proprio bravi. L’assoluta incongruenza tra lo squallore del luogo e la qualità delle parole. E la serietà, la severità, l’inflessibilità dietro la trasandatezza. La gente che ho visto bocciare all’esame di dottorato. L’incongruenza che tu, straniera, avvertivi tra come si presentava il tutto e la loro altissima considerazione di sé. Perché i cubani hanno un’immensa stima di sé. I cubani si sentono speciali, bravissimi, una specie di razza eletta. E questo non te lo aspetti, da un paese che cade a pezzi. E siccome te la fanno pesare, la loro presunzione, la loro certezza di essere degli immensi fighi, un po’ li strozzeresti e un po’ ti ritrovi ad ammettere che tutti i torti non ce li hanno. Li strozzeresti per i modi, ma poi devi ammettere che la loro forza è tutta lì. Nel sentirsi i migliori di tutti e quelli che non hanno paura di nessuno. E’ difficile, per una come me, arrivere all’aeroporto praticamente in fuga, pregustando il mondo normale che riabbraccerai entro un’ora, sopportare con odio le ultime angherie cubane prima di entrare nell’aereo (un assorbente dieci dollari di cui otto te li metti in tasca tu, negoziante cubana che abusa del mio stato di straniera in difficoltà?) e poi, nel momento esatto in cui l’odio ti trabocca da dentro, vedere gli sportelloni di un aereo angolano che si aprono e i passeggeri che cominciano a scendere: in sedia a rotelle, in barella, uno più sciancato dell’altro. Africani che vanno a curarsi a Cuba. Gente che noi, in Europa, lasciamo morire con indifferenza se non soddisfazione, e che la poverissima Cuba invece accoglie e cura. E tu che fai? Guardi, ti rendi conto, e che te ne fai più del tuo odio? Ti accorgi che sei una straniera viziata o, peggio, che non sei proprio nessuno. Che la Storia, da quelle parti, non sei tu, non passa per l’Europa. Tu sei lo spettatore pagante, se ti va bene, oppure aria, vattene. Cuba mette a fuoco altro da te. L’Europa, in effetti, è lontanissima. Ed è straniante sentire gli europei che parlano di Cuba e dicono sempre, puntualmente, tutto il contrario di quello che vedi tu. Dai massimi sistemi a quelli minimi. Cominciamo dai primi: “E’ una dittatura, la gente vuole fuggire, gli omosessuali perseguitati, i dissidenti“. In realtà, l’immagine di dittatura cubana che si ha all’estero è quella dei primi anni 70, del cosiddetto “quinquenio gris” che la stessa ortodossia politica della Cuba di oggi definisce come “intento de implantar como doctrina oficial el Realismo socialista en su versión más hostil.” La definizione è diEcuRed (la Wikipedia cubana, per intenderci) ma io stessa ho sentito criticare, addirittura ridicolizzare quell’epoca nelle aule universitarie dell’Università dell’Avana. Sono passati 35 anni da allora, gente. Cuba non è quella cosa lì. I cubani fanno il diavolo che gli pare. E pure gli stranieri. Diceva la mia padrona di casa: “Tre cose non si possona fare, a Cuba: le droghe, lo sfruttamento dei bambini e, se sei straniero, una smaccata propaganda antistatale. Per il resto, se vuoi camminare per strada nudo e a testa in giù nessuno ti dice niente.” I dissidenti? Avranno una dignità quelli legati alla Chiesa, suppongo, ma credo che tutti sappiano che le varie Damas en Blanco, per non parlare poi della Sanchez, prendono soldi per ogni manifestazione che fanno (famoso un loro sciopero perché non erano pagate abbastanza). Io non ho conosciuto nessuno, letteralmente nessuno, che ne parlasse con un minimo di rispetto. E’ gente pagata, punto, chiusa la questione. Poi, certo, la gente parla di poltica, immagina il futuro, esprime idee. C’è chi ama (amava, gessù…) Fidel e chi lo detesta/detestava. E chi, la maggior parte, ha sentimenti ambigui, tra l’ammirazione e il rancore. Chi cambia idea ogni secondo. Perché, di fondo, i cubani sono orgogliosi delle loro conquiste. Sono orgogliosi di quello che hanno combinato. E fanno catenaccio, sono uniti, sono isolani. Ecco, sono isolani. Non capisci Cuba se non ti metti in testa questo: che sono isolani, e per loro il mondo è Cuba e tutto il resto c’è se serve, sennò può pure affondare. Vogliono scappare? In realtà vogliono viaggiare. Perché sono isolani, appunto. C’è tanto mondo che non hanno mai visto. E poi, certo, vogliono soldi. Vogliono comprare cose. Vogliono guadagnare, come è umano che sia. Ma poi vogliono tornare. I cubani muoiono di nostalgia, lontano da casa, dalla famiglia, dalla loro gente, dal loro riso e fagioli. Sono uniti da fare schifo, i cubani. E se si sentono minacciati, di più. Ne sanno qualcosa gli USA, che inasprirono l’embargo nel momento esatto in cui cessarono gli aiuti dall’URSS e a Cuba fecero, letteralmente, la fame. Speravano in una rivolta, gli USA. Si ritrovarono con un popolo che si rimboccò le maniche per l’ennesima volta e ne uscì in piedi, come sempre. Inventandosi cose come il pastrocchio di soia, ripugnante intruglio distribuito alla popolazione come “proteinas para el pueblo“. Perché poi sono pratici: il corpo ha bisogno di proteine, vitamine, carboidrati? In qualche modo li ingurgitavano. E nei parchi ci sono gli attrezzi per fare ginnastica, tipo palestra. E se non ci sono medicine, ricorrono alle piante, alla medicina naturale. Ne escono sempre. E si concedono pure il lusso di esportare i loro medici in Venezuela, come altri esporterebbero, chessò, rame, in cambio di petrolio venezuelano. Questo, hanno fatto i cubani: hanno esportato medici in cambio di petrolio. Perché questo è quello che hanno: la loro formidabile, benché odiosissima, gente. Suona retorico, lo so. Odio scriverlo, odio dirlo. Però è vero. Incredibilmente, è vero. Come, poi, questi medici, questi professionisti cubani riescano ad essere bravi nonostante ristrettezze di ogni genere (falla tu, ricerca, in un paese con internet a pedali) io non lo so e non l’ho capito. Ma ce la fanno. Gli omosessuali, poi: a Cuba si celebra il Pride, per dire. Sono finiti gli anni 70, “Fresa y chocolate” fu girato con sovvenzioni statali, non scherziamo. Ma, soprattutto, ricordo una pubblicità progresso dello Stato, dei cartelloni esposti nelle farmacie che mi colpirono molto. Era una cosa sulla prevenzione dell’AIDS e c’era la foto di due gay che si baciavano. Ma a differenza dell’Europa, dove i due gay sarebbero stati giovani e bellissimi, nella foto cubana c’erano due signori di mezz’età, bruttini, normali. Due comuni cittadini, come li avresti potuti incontrare sul pianerottolo. Né giovani, né belli, né magri, niente. Due signori che si baciavano e un pacato invito all’amore che non escludeva la prevenzione. Sobrio. Rispettoso. Bello. Mi sembrò un esempio da seguire. Del resto, Cuba è molto poco patinata. Non ha neanche la pubblicità, se è per questo. Solo pubblicità progresso e grosse scritte motivazionali un po’ ovunque. E’ il buono dell’avere molto poco da comprare, nessuno cerca di convincerti a farlo. Altrettanto stranianti mi paiono poi i discorsi degli stranieri che celebrano i cubani come un popolo di felici danzerini sempre di buon umore e simpatici, uh, che simpatici. Di buon umore? Io, gente stronza come all’Avana ne ho vista poca, in vita mia. Quando diventa chiaro che non li vuoi scopare, che non gli vuoi offrire da bere, che non ti caveranno una lira, tu diventi trasparente ma attorno a te si dispiega la realtà: gente affaticata, incazzosissima, arrogante o, semplicemente, con i cazzi suoi a cui pensare, come è giusto e normale che sia. No, non sono ciarlieri: puoi farti un’ora su un taxi collettivo strapieno senza che nessuno parli con nessuno. Puoi andare mille volte allo stesso bar senza scambiare una parola col barista. Ricevere una gentilezza gratis è rarissimo, ricevere un sorriso non interessato di più. Se sei in difficoltà attiri gli squali. E più è giovane, la gente, e più è stronza. Ecco, questa è una cosa importante: il divario tra i vecchi e i giovani, a Cuba. Con la crisi degli anni Novanta, il sistema scolastico cubano si ritrovò a piedi, come molte altre cose. Con il grosso dei maestri esportati in giro, ci si ritrovò con i ragazzi più grandi a fare lezione ai più piccoli, per dire, e a un generale decadimento dell’istituzione. Per questo e altri motivi, si percepisce uno stacco culturale importante tra i cubani da una certa generazione in giù. I giovani non valgono quanto i loro padri. E questo sarà un problema, in prospettiva. Poi, è vero, la gente fuori dall’Avana (o da Varadero, gessù) è meglio. Molto meglio. Ma i cubani sono, dicevo, isolani. Cocciuti, orgogliosi, quello che vuoi tu, ma non amichevoli. Ma manco per il cazzo, proprio. Se sono amichevoli, anzi, è meglio che ti preoccupi. Avranno i loro motivi, e sono motivi che non ti convengono. Esagero? Sì, un po’. Sintetizzare crea stereotipi, è ovvio. Però, ecco, stereotipo per stereotipo, quello dello stronzo mi pare più azzeccato di quello del felice danzerino. Fermo restando che ballano benissimo, è ovvio. Ma siamo sempre lì: se da una parte io li detestavo – a un certo punto li detestavo proprio tutti, senza eccezioni – dall’altra, poi, mi accorsi in fretta che, nel resto dell’America Latina, potevo usare il mio status di residente a Cuba come un’onoreficenza, una cosa che mi distingueva in positivo dalla massa europea. Soprattutto in Nicaragua. In Nicaragua, quando la gente scopre che vivi a Cuba si emoziona. Manca solo che ti abbracci. Perché, in un modo o nell’altro, tutti debbono qualcosa ai cubani. “Io mi sono laureato a Cuba, gratis!” “Mio padre è stato salvato da un medico cubano!” Una folla. Il Nicaragua trabocca di gente che in gioventù è stata presa e spesata da Cuba per studiare, che ha avuto vitto e alloggio gratis per anni, che ha con l’isola un debito a vita. E se tu vivi a Cuba, pare che ce l’abbiano anche con te, il debito. Ti trattano bene. Ti rispettano. I cubani sono rispettati, in America Latina. Se lo sono guadagnato. E alla fine, è questo: li rispetti. Io li rispetto. Non li amo, ma li rispetto. E quando hai girato per tutto il Centro America, e non ne puoi più di vedere bambini coperti di stracci, bambini che in Chiapas vanno a lavorare trascinandosi zappe più grandi di loro, bambini che circondano il Ticabus a ogni sosta della Panamericana armati di stracci e si mettono a lavarlo in cambio di un’elemosina, finisce che non vedi l’ora di tornarci, a Cuba, e di vedere finalmente bambini normali (la normalità è un concetto molto mobile), con l’uniforme lavata e stirata, belli pettinati con la riga a lato o le treccine e che vanno, tutti, A SCUOLA. Oppure a giocare. E che non lavorano. Mai. Riatterri a Cuba che trabocchi di rispetto. Lo dici al taxista che ti riporta all’Avana e lui è contento, rincara la dose: “E’ vero, noi ci lamentiamo e ci dimentichiamo del buono, ma è proprio vero. Anche i nostri portatori di handicap, non c’è confronto. E che dire della delinquenza, del narcotraffico? Siamo fortunati, noi.” Sì, sono fortunati, loro. Perché è una questione di prospettiva: se nasci povero, malato, sfortunato, è meglio se nasci a Cuba. Molto meglio, proprio. Fuori da lì, muori e muori male. Un povero non vuole essere guatemalteco, haitiano, dominicano. Vuole essere cubano, credimi. Cosa si può dire di Fidel nel giorno della sua morte? Questo, probabilmente: che ha dato un senso allo sfuggente concetto di “cubanità”. Concetto che i cubani inseguivano da un secolo, prima che arrivasse lui. Che ha preso un popolo che lottava per la sua indipendenza da cent’anni – prima contro gli spagnoli e subito dopo, come una grottesca beffa, contro gli USA che ne presero il posto – e lo ha reso, per la prima volta nella sua storia, indipendente. Parliamo un po’ di questo, di cosa è la “cubanità”. I cubani sono figli di due popoli entrambi sradicati, spagnoli e africani, piombati su un’isola dove gli indigeni erano scomparsi praticamente subito e senza quasi lasciare traccia. Sono il risultato dell’incontro/scontro e poi mescolanza di europei venuti a fare soldi e di africani trascinati come schiavi. Sarebbero un’accozzaglia di storie e culture diverse, di radici sradicate, di bianchi e neri, schiavisti e schiavi, violentatori e violentati, se tutte queste storie e queste culture non si fossero mischiate, se tutti non fossero andati a letto con tutti, se l’immenso meticciato che ne è derivato non si fosse unito, a un certo punto, nel nome della lotta per l’indipendenza. Cuba è giovane. Diceva uno dei suoi grandi intellettuali, Fernando Ortiz: “Tutto quello che in Europa è successo nell’arco di millenni, a Cuba è successo in soli quattro secoli“. Cuba non ha storia che non sia di appena ieri, non ha spiritualità come la intendono i popoli antichi, non ha religione che non sia un minestrone di riti mischiati, non ha un colore, una faccia, un’identità che non sia quella dell’essere cubani, appunto. Qualsiasi cosa ciò voglia dire. E diceva sempre Ortiz: “La cubanità non la dà la nascita, in un paese come il nostro, né la residenza, il colore, non te la dà nessun dato oggettivo. La cubanità te la dà la volontà di essere cubano“. E’ cubano chi ha voluto costruire Cuba. E Cuba, quindi, ha cominciato a nascere nel 1860, quando bianchi e neri insieme hanno cominciato a lottare contro la Spagna. Insieme, questo è importante. Lì è stato lo spartiacque. E l’hanno combattuta per 30 anni, fino al 1898. Quando sono arrivati gli USA, che fino ad allora se ne erano rimasti a guardare tifando per lo più Spagna, e hanno sfilato la vittoria ai cubani. Hanno dichiarato guerra a una Spagna ormai sfiancata, l’hanno sconfitta e si sono presi Cuba. I cubani, quindi, invece di una vittoria si sono trovati davanti a un passaggio di consegne. Invece della loro costituzione si sono ritrovati l’Enmienda Platt, e un padrone nuovo a cui obbedire. Però i cubani sono cocciuti, come dicevo. Per i cinquanta anni successivi si sono rotti la testa studiando, protestando, guerreggiando – la rivoluzione fallita del ’30 – e ancora e ancora, tra due dittature e mille governi-fantoccio, mentre la loro economia dipendeva dagli USA, mentre persino il razzismo si accodava a quello degli USA impiantando l’apartheid che gli spagnoli mai avevano conosciuto, mentre sull’isola dilagavano il gangsterismo e la corruzione e le carceri erano piene – allora, mica oggi! – di oppositori politici. E poi è arrivato Fidel, la cui storia è talmente folle che sembrerebbe finta, se non fosse invece reale e documentabile. Si cita spesso “La Storia mi assolverà”, credo il più delle volte senza averlo letto. E’ l’autoarringa con cui lui, ben prima della Rivoluzione, spiegò ai giudici che lo avrebbero condannato il perché dell’assalto alla caserma Moncada, fatto da lui, il fratello piccolo Raul e un manipolo di studenti, studentesse, ragazzi vari, e finito malissimo. E’ la fotografia della Cuba sotto Batista e gli USA. E’ una dichiarazione di intenti – o, all’epoca, di sogni – ed è, soprattutto, l’autoritratto di un gigante. E’ molto difficile leggerlo, sapere che quell’uomo stava entrando in carcere e non sentire un rispetto immenso. Poi vennero l’uscita dal carcere, l’esilio in Messico, l’acquisto di una barchetta (Il Granma) con cui partire, stipandola all’inverosimile, all’assalto di Cuba, lo sbarco (su cui il Che disse: “Fu più che altro un naufragio”), la polizia di Batista che stermina i naufraghi, Fidel che alla fine si ritrova con – boh, vado a memoria – meno di venti superstiti e dice: “Ce l’abbiamo fatta, vinciamo sicuro.” E vince. Sul serio. E, per la prima volta nella sua storia, Cuba diventa uno Stato sovrano. Questo, è stato il punto. E poi vince ancora, e ancora, e ancora. Contro gli USA. Prendendoli sempre, incessantemente, per il culo. Gli USA proiettano propaganda anticastrista sul loro palazzone all’Avana? Castro fa circondare il palazzone da bandiere più alte, una per ogni stato che all’ONU si è dichiarato contrario all’embargo, e così lo impacchetta rendendolo praticamente invisibile. Gli USA mandano navi al largo di Mariel per prendere dissidenti in fuga e mostrarli al mondo? Fidel fa svuotare tutte le carceri e i manicomi di Cuba e ne spedisce gli ospiti tutti da loro, riempiendo gli USA di matti e delinquenti comuni cubani. La lista è infinita, la vicenda umana di Fidel anche. Il rapporto tra USA e Cuba, alla fine, è strano. Ma strano forte. Gli USA e Cuba si amano e si odiano, sembrano parenti in lite. I primi hanno sempre voluto mettere le mani sui secondi, prima cercando di comprare Cuba alla Spagna, poi prendendosela con le cattive. I secondi hanno sempre sofferto l’ingombrante ombra e le mire squalesche dei vicini, e hanno fatto tutto quello che un popolo può umanamente fare per farsi trattare alla pari. Cuba non ha voluta fare la fine di Puerto Rico, tutto qui. Non ha voluto essere una colonia. Ma, alla fine, la sua storia recente è stata comunque pesantemente condizionata dagli USA. Avrebbero chiesto aiuto all’URSS, virando fortemente sulle posizioni sovietiche, se non avessero dovuto difendersi dagli USA? Avrebbero avuto bisogno di un partito unico per 50 anni se non avessero avuto bisogno di essere tanto compatti dinanzi a un nemico tanto potente? E come sarebbe, oggi, Cuba, se non uscisse da 60 anni di embargo? Se è riuscita a dare cibo, salute e istruzione a tutti i suoi cittadini NONOSTANTE l’embargo, cosa avrebbe fatto senza il limite, l’impoverimento a cui è stata condannata? Voi lo sapete? Io no, francamente. Quello che so, è che l’embargo li ha compattati ancora di più. E, conoscendoli, non era difficile da capire. Però ho visto un sacco di cittadini USA, a Cuba, e ben prima che Obama aprisse il paese. Col cappello in mano e colmi di ammirazione, li ho visti. Che arrivano per dei corsi di studio all’università, o da soli, passando per il Messico per non farsi scoprire dalle proprie autorità. Perché gli statunitensi non potevano andare a Cuba per ordine degli USA stessi, ma lo Stato cubano li ha sempre fatti entrare, facendo col visto lo stesso giochino che Israele fa con chi non vuole il timbro d’entrata sul passaporto: te lo dà su un pezzo di carta. E ho visto un sacco di cubani che desideravano andarci, negli USA, e fare soldi, vedere l’abbondanza, visitare i parenti. Sono talmente vicini, in linea d’aria, che sembra incredibile. Io, alla fine – e concludo questa lunga riflessione che oggi mi era proprio necessaria – di Cuba ho capito questo: che la devi rispettare, sennò prendi calci in culo. Tiri fuori il peggio dai cubani, se li prendi contropelo. E che questo orgoglio infinito, cocciuto, cazzuto, fa parte del sentire dell’isola ma Fidel lo ha saputo compattare, dargli sfogo e direzione. Lui ha preso un popolo costretto a passare da una bandiera all’altra e ne ha fatto una cosa diversa: il popolo che ha vinto, quello che si è guadagnato l’indipendenza e l’ha difesa, quello che ha ottenuto le uniche, grandi conquiste sociali dell’America Latina, quello che più si è schierato contro il razzismo, quello che ha fatto sognare mezzo pianeta, quello che non si capisce come abbia fatto ma, in qualche modo, ce l’ha fatta. Ha preso una colonia e ne ha fatto uno Stato. Molto, molto orgoglioso di sé. Ha commesso errori? Certo. Avrebbe potuto fare di meglio? Sì. I cubani hanno sofferto? Sì, ma l’alternativa era essere Puerto Rico o peggio. E avevano combattuto troppo, e troppo a lungo, per potere accettare di essere Puerto Rico. So’ gente orgogliosa, che gli vuoi dire. Per quanto possa sembrare paradossale, io non pensavo che Fidel potesse morire. Pensavo che avrebbe seppellito pure me. Mi fa proprio uno strano effetto, questa morte, ed essendo io una donna del Novecento penso che, stavolta, di giganti non ne rimane proprio nessuno. Ora: i cubani di oggi, i giovani cubani di oggi, saranno all’altezza della storia incredibile che gli lascia Fidel? Io credo che lui abbia cercato anche, riuscendoci spesso, di tirare fuori il meglio dal proprio popolo. Di dargli disciplina, serietà, educazione, cultura. Di fare di un popolo caraibico il popolo serio per eccellenza di tutta l’area. Operazione non facilissima, va detto. Lascia un popolo povero ma viziato, nonostante la cura da cavallo degli anni Novanta. Che non paga bollette, che ha la sopravvivenza assicurata, che si crede ‘sto cazzo. E che è umanamente e culturalmente in declino da un po’. Dove le differenze razziali, dagli anni novanta in poi, si sono accentuate. Da quando le rimesse dell’estero sono diventate vitali, e si dà il caso che il grosso dei cubani emigrati fosse bianco e abbia, quindi, mandato denaro alle famiglie bianche, mettendo loro e solo loro in condizione di partire con la piccola impresa. Un popolo che ha più aspettative che voglia di lavorare, e a cui il turismo – soprattutto quello italiano, e va detto a nostro disonore – ha fatto un gran male. Non so cosa ne sarà di Cuba, se i suoi “difetti” la aiuteranno anche stavolta o se, senza il carisma del suo Padre della Patria, diventerà il paesello qualsiasi che tanti sperano che diventi. Temo la generazione cresciuta negli anni Novanta. Se Cuba va al macero, sarà per loro. Ma se questo dovesse accadere, sarebbe una gran perdita per il mondo intero. Sono degli stronzi, pensano solo agli affari loro, ti venderebbero al macello se solo potessero – e lo fanno appena possono – e tuttavia, pur di essere fighi, hanno dato tanto. Per un’italiana che non li regge ci sono cento cittadini del Terzo Mondo che devono loro qualcosa. Da sessanta anni, rendono il pianeta più vario e più vero. Io credo che si sentano abbastanza male, oggi, i cubani. E che ne abbiano tutti i motivi. Tocca invece invidiare un po’ il Padreterno, se c’è, ché finalmente se lo vede là, ‘sto famoso Fidel, e finalmente può farci due chiacchiere. Non ha aspettato poco, decisamente. E mi piace immaginare che, tra i due, il più curioso sia il Padreterno".