martedì 1 marzo 2016

UTERO IN AFFITTO -


Perche trovo aberrante l’utero in affitto.
 
Ho fatto una piccola ricerca  su internet  sulla pratica dell’utero in affitto,  se prima trovavo folle questa pratica adesso la trovo aberrante.

Ci sono innumerevoli i siti d’informazione e i portali delle cliniche che pubblicizzano la pratica dell'utero in affitto come un prodotto perfetto, con un’assistenza completa per tutta la durata del cosiddetto “programma”. Fecondazione in vitro, impianto, parto. Tali siti ovviamente si guardano bene dal pubblicizzare con altrettanta chiarezza i rischi non solo legali ma anche di salute che la realizzazione del “prodotto perfetto” comporta e che arrivano fino alla morte della donna e alla malformazione del feto. Capitolo a parte sono i costi, che ne fanno un vero business da 12-20mila euro in India, a 40mila in Ucraina, ai 100mila in alcuni degli Stati Uniti d'America e 100/150 mila in Canada (dove si sono recati Vendola e fidanzato). Sono le agenzie intermediarie a stipulare un vero e proprio contratto con il committente: del compenso pattuito, alla madre va una minima parte (ma anche se alla madre andasse l'intero importo, ciò non renderebbe la questione meno grave). Se durante la gestazione i controlli evidenziano anomalie nel feto, il committente può, per contratto, obbligare la madre surrogata ad abortire senza neppure consultarla e quasi sempre senza poi pagarla.  Spesso il contratto include anche la possibilità di scegliere il sesso del nascituro. Gli agenti intermediari selezionano accuratamente la madre surrogata: ciò che conta è che sia una ‘portatrice sana’ e che venga ben nutrita e controllata nel suo stato di salute durante i nove mesi di affitto. Tra le varie proposte commerciali c’è anche chi promette la scelta della donatrice d’ovuli tra le candidate disponibili (bionda, occhi azzurri, ecc.): una vera e propria selezione della “razza”, o meglio, ricerca di mercato del “prodotto”, come quando, appunto, si acquista un oggetto. La madre in affitto trascorre la sua gravidanza in residenze protette, per assicurarle una nutrizione adeguata e tenere sotto controllo le condizioni igieniche e sanitarie, le viene impedito di incontrare il proprio marito, per evitare il rischio che contragga malattie sessualmente trasmissibili, in pratica per essere certi che il prezioso prodotto commissionato non si possa avariare o deteriorare! Il bambino viene sottratto subito dopo il parto impedendone l’allattamento alla madre naturale, alla quale non viene neppure detto se è maschio o femmina. Le residenze protette servono anche per impedire alla donna di scappare con il figlio appena partorito per mettere al riparo i vari committenti dal rischio che la ‘donna incubatrice’ abbia ripensamenti. È una vera e propria transazione commerciale, per cui spetta ai clienti porre le condizioni del servizio per il quale pagano (la maternità surrogata) ed ottenere il “prodotto” commissionato. Nel panorama mondiale degli uteri in affitto, l’industria indiana della maternità surrogata è stimata produrre un indotto complessivo enorme, circa due miliardi di dollari, con un migliaio di cliniche, spesso non regolari. Sono di recente denuncia ad opera di organizzazioni per i diritti umani, casi di ragazze comprate in villaggi poveri con l’illusione di un lavoro come domestica, che vengono ridotte in schiavitù nel mercato degli uteri in affitto. (5) Secondo il tariffario (!) pubblicato dal New York Times, una madre surrogata indiana costa in media 25mila euro (dai 10.000 ai 35.000 dollari), una madre americana tre volte di più (tra 59.000 e 80.000 dollari), ma ci sono casi di compensi che sfiorano anche i 150mila euro. A Creta i costi più bassi: un figlio costa in media 12mila euro. Il Guatemala è un mercato emergente: si possono risparmiare più di 10mila dollari. Altro Paese emergente nel mercato globale delle gravidanze conto terzi è la Thailandia. Seguono Ecuador, Bolivia e Haiti. L’Argentina sta valutando l’opportunità di rendere legale la pratica che si sta diffondendo, anche in Europa, soprattutto in Russia e Ucraina, ma anche Polonia e Romania. Come si può capire dai dati, le fabbriche di maternità sono prevalentemente nei Paesi poveri e gli acquirenti sono i ricchi. Esiste dunque un mercato riproduttivo globale nel quale, in sostanza, le donne povere, soprattutto orientali, vengono pagate dalle donne ricche per condurre le gravidanze al posto di queste ultime o da single e coppie omosessuali per colmare il desiderio di famiglia tradizionale. L’utero in affitto è insomma una nuova schiavitù per i poveri, un nuovo business e un lusso per ricchi, qualunque sia il loro orientamento sessuale. A prima vista questa pratica della surrogazione di maternità può sembrare una pratica emancipativa, una di quelle situazioni in cui la donna sarebbe libera di decidere del proprio corpo. Io personalmente non sono d’accordo perché se si si riflette e si fa un esame più approfondito, viene fuori l’aspetto importante in questo mondo guidato solo dalle leggi del mercato e cioè che a regolare questo passaggio, per cui una donna cede il proprio utero ad altri, è la fredda logica della domanda e dell’offerta, vilmente tradotta nella mercificazione del corpo, della madre e del figlio. Le motivazioni addotte dal fronte del sì per cui in questa pratica si rivelerebbe in tutta la sua compiutezza la possibilità per le donne di autodeterminazione del proprio corpo, rivendicata e parzialmente ottenuta attraverso le lotte degli anni Settanta per l’emancipazione femminile, decadono di fronte alla legge di mercato: qui non si tratta di gestire autonomamente il proprio corpo poiché non può esistere libertà di scegliere in un sistema basato sulla mercificazione dell'essere umano, sullo sfruttamento di classe e su profonde differenze tra Paesi imperialisti e Paesi coloniali e semicoloniali. Molte donne che vivono oggi in Paesi coloniali e semicoloniali, costrette dall’oppressione e dallo sfruttamento globali a vite sotto la soglia di povertà, accettano in cambio di pochi soldi di “solidarizzare” con chi è meno fortunato (per dirla con le femministe borghesi!) in questa ricerca di maternità. Senza contare che la presunta solidarietà di queste donne vittime del sistema, che le relega ai margini della società costringendole a scegliere di farsi tramite della felicità altrui, si infrange miseramente su se stessa se inquadrata nelle reali condizioni materiali in cui queste donne vivono. Le madri in affitto sono le stesse donne che nei loro Paesi non hanno diritto all'aborto, che non possono contare su nessuna politica sociale a sostegno della maternità, che non conoscono o non hanno accesso ai metodi contraccettivi, che sono vittime nella quotidianità di violenze domestiche e sociali, come per esempio il mancato controllo sullo sfruttamento. Il mio NON essere daccordo nasce prima di tutto contro lo sfruttamento e l’oppressione perché non è accettabile che una donna venda il proprio corpo per accontentare i “desideri” di ricche/i borghesi, siano questi desideri sessuali o di maternità. Dico NO contro il mercimonio di ogni cosa, persone incluse, che questa società consente, stabilendo cosa e quanto possa diventare merce, cosa e quanto si possa comprare per mantenere in vita un sistema ormai agonizzante. Come dimostra l'aumento della violenza domestica, le donne sono sempre meno indipendenti economicamente e, quindi, sempre più costrette a subire violenze maschiliste tra le mura domestiche. Lo stesso “desiderio” di maternità, così come ci viene imposto dalla società, che spinge fino all’aberrazione della compravendita di una maternità surrogata, non ha nulla di romantico: è spesso indotto dalle esigenze del sistema che ha necessità di mantenere un ordine, un equilibrio tra le classi per continuare lo sfruttamento e l’oppressione di una classe su un’altra.

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