Perche trovo aberrante l’utero in affitto.
Ho fatto una
piccola ricerca su internet sulla pratica dell’utero in affitto, se prima
trovavo folle questa pratica adesso la trovo aberrante.
Ci sono innumerevoli i siti d’informazione e i portali delle cliniche
che pubblicizzano la pratica dell'utero in affitto come un prodotto perfetto,
con un’assistenza completa per tutta la durata del cosiddetto “programma”.
Fecondazione in vitro, impianto, parto. Tali siti ovviamente si guardano bene
dal pubblicizzare con altrettanta chiarezza i rischi non solo legali ma anche
di salute che la realizzazione del “prodotto perfetto” comporta e che arrivano
fino alla morte della donna e alla malformazione del feto. Capitolo a parte
sono i costi, che ne fanno un vero business da 12-20mila euro in India, a
40mila in Ucraina, ai 100mila in alcuni degli Stati Uniti d'America e 100/150
mila in Canada (dove si sono recati Vendola e fidanzato). Sono le agenzie
intermediarie a stipulare un vero e proprio contratto con il committente: del
compenso pattuito, alla madre va una minima parte (ma anche se alla madre
andasse l'intero importo, ciò non renderebbe la questione meno grave). Se
durante la gestazione i controlli evidenziano anomalie nel feto, il committente
può, per contratto, obbligare la madre surrogata ad abortire senza neppure
consultarla e quasi sempre senza poi pagarla. Spesso il contratto include anche la
possibilità di scegliere il sesso del nascituro. Gli agenti intermediari
selezionano accuratamente la madre surrogata: ciò che conta è che sia una
‘portatrice sana’ e che venga ben nutrita e controllata nel suo stato di salute
durante i nove mesi di affitto. Tra le varie proposte commerciali c’è anche chi
promette la scelta della donatrice d’ovuli tra le candidate disponibili
(bionda, occhi azzurri, ecc.): una vera
e propria selezione della “razza”, o meglio, ricerca di mercato del
“prodotto”, come quando, appunto, si acquista un oggetto. La madre in affitto
trascorre la sua gravidanza in residenze protette, per assicurarle una
nutrizione adeguata e tenere sotto controllo le condizioni igieniche e
sanitarie, le viene impedito di incontrare il proprio marito, per evitare il
rischio che contragga malattie sessualmente trasmissibili, in pratica per
essere certi che il prezioso prodotto
commissionato non si possa avariare o deteriorare! Il bambino
viene sottratto subito dopo il parto impedendone l’allattamento alla madre
naturale, alla quale non viene neppure detto se è maschio o femmina. Le
residenze protette servono anche per impedire alla donna di scappare con il
figlio appena partorito per mettere al riparo i vari committenti dal rischio
che la ‘donna incubatrice’ abbia ripensamenti. È una vera e propria transazione
commerciale, per cui spetta ai clienti porre le condizioni del servizio per il
quale pagano (la maternità surrogata) ed ottenere il “prodotto” commissionato. Nel
panorama mondiale degli uteri in affitto, l’industria indiana della maternità
surrogata è stimata produrre un indotto complessivo enorme, circa due miliardi
di dollari, con un migliaio di cliniche, spesso non regolari. Sono di recente
denuncia ad opera di organizzazioni per i diritti umani, casi di ragazze
comprate in villaggi poveri con l’illusione di un lavoro come domestica, che vengono
ridotte in schiavitù nel mercato degli uteri in affitto. (5) Secondo il
tariffario (!) pubblicato dal New
York Times, una madre surrogata indiana costa in media 25mila euro
(dai 10.000 ai 35.000 dollari), una madre americana tre volte di più (tra 59.000
e 80.000 dollari), ma ci sono casi di compensi che sfiorano anche i 150mila
euro. A Creta i costi più bassi: un figlio costa in media 12mila euro. Il
Guatemala è un mercato emergente: si possono risparmiare più di 10mila dollari.
Altro Paese emergente nel mercato globale delle gravidanze conto terzi è la
Thailandia. Seguono Ecuador, Bolivia e Haiti. L’Argentina sta valutando
l’opportunità di rendere legale la pratica che si sta diffondendo, anche in
Europa, soprattutto in Russia e Ucraina, ma anche Polonia e Romania. Come
si può capire dai dati, le fabbriche di maternità sono prevalentemente nei
Paesi poveri e gli acquirenti sono i ricchi. Esiste dunque un mercato riproduttivo
globale nel quale, in sostanza, le donne povere, soprattutto orientali, vengono
pagate dalle donne ricche per condurre le gravidanze al posto di queste ultime
o da single e coppie omosessuali per colmare il desiderio di famiglia
tradizionale. L’utero in affitto è insomma una nuova schiavitù per i poveri, un
nuovo business e un lusso per ricchi, qualunque sia il loro orientamento
sessuale. A prima vista questa pratica della surrogazione di maternità può
sembrare una pratica emancipativa, una di quelle situazioni in cui la donna
sarebbe libera di decidere del proprio corpo. Io personalmente non sono d’accordo
perché se si si riflette e si fa un esame più approfondito, viene fuori l’aspetto
importante in questo mondo guidato solo dalle leggi del mercato e cioè che a
regolare questo passaggio, per cui una donna cede il proprio utero ad altri, è
la fredda logica della domanda e dell’offerta, vilmente tradotta nella
mercificazione del corpo, della madre e del figlio. Le motivazioni addotte dal
fronte del sì per cui in questa pratica si rivelerebbe in tutta la sua
compiutezza la possibilità per le donne di autodeterminazione del proprio
corpo, rivendicata e parzialmente ottenuta attraverso le lotte degli anni
Settanta per l’emancipazione femminile, decadono di fronte alla legge di
mercato: qui non si tratta di gestire autonomamente il proprio corpo poiché non
può esistere libertà di scegliere in un sistema basato sulla mercificazione
dell'essere umano, sullo sfruttamento di classe e su profonde differenze tra
Paesi imperialisti e Paesi coloniali e semicoloniali. Molte donne che vivono
oggi in Paesi coloniali e semicoloniali, costrette dall’oppressione e dallo
sfruttamento globali a vite sotto la soglia di povertà, accettano in cambio di
pochi soldi di “solidarizzare” con chi
è meno fortunato (per dirla con le femministe borghesi!) in
questa ricerca di maternità. Senza contare che la presunta solidarietà di
queste donne vittime del sistema, che le relega ai margini della società
costringendole a scegliere di farsi tramite della felicità altrui, si infrange
miseramente su se stessa se inquadrata nelle reali condizioni materiali in cui
queste donne vivono. Le madri in affitto sono le stesse donne che nei loro
Paesi non hanno diritto all'aborto, che non possono contare su nessuna politica
sociale a sostegno della maternità, che non conoscono o non hanno accesso ai
metodi contraccettivi, che sono vittime nella quotidianità di violenze
domestiche e sociali, come per esempio il mancato controllo sullo sfruttamento.
Il mio NON essere daccordo nasce prima di tutto contro lo sfruttamento e
l’oppressione perché non è accettabile che una donna venda il proprio corpo per
accontentare i “desideri” di ricche/i borghesi, siano questi desideri sessuali
o di maternità. Dico NO contro il mercimonio di ogni cosa, persone incluse, che
questa società consente, stabilendo cosa e quanto possa diventare merce, cosa e
quanto si possa comprare per mantenere in vita un sistema ormai agonizzante. Come
dimostra l'aumento della violenza domestica, le donne sono sempre meno
indipendenti economicamente e, quindi, sempre più costrette a subire violenze
maschiliste tra le mura domestiche. Lo stesso “desiderio” di maternità, così
come ci viene imposto dalla società, che spinge fino all’aberrazione della
compravendita di una maternità surrogata, non ha nulla di romantico: è spesso
indotto dalle esigenze del sistema che ha necessità di mantenere un ordine, un
equilibrio tra le classi per continuare lo sfruttamento e l’oppressione di una
classe su un’altra.
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